Sulla linea di questo paradosso si sviluppa il secondo esercizio dialettico.

vedere le cose come in uno specchio” (metafora utilizzata da un notaio spagnolo per definire il modo in cui opera il giurista pratico) → Gentile avverte la necessità di tornare ai testi dei classici per affrontare il problema del rapporto tra linguaggio e diritto.

La constatazione degli analitici che i nomi possono indicare non tanto delle cose quanto l’uso che di essi si fa in un contesto sociale dato, non consente di valutare e quindi di giudicare l’ordinamento giuridico sulla base della sua corrispondenza o meno ad un diritto ideale, naturale o razionale.

Anche chi ritiene di poter affermare che sia il giusto naturale ad operare nell’ordinamento giuridico, deve fare i conti con quanto scrive Platone nel sofista: se con i phantasmata, producendo virtualità e chiamandole con lo stesso nome delle cose, il sofista può incantare le orecchie di chi lo ascolta; è solo attraverso degli eikona, copie chiamate con lo stesso nome delle cose, che il filosofo apre gli occhi di chi, libero da preconcetti, cerchi la realtà dei fatti.

Ed ecco che risulta chiaro perché la ricerca del vero prende avvio nel discorso, là dove eikona e phantasmata sono posti a confronto e vengono distinti per il loro essere o non essere veramente copia delle cose.

Non va dimenticato che il filosofo chiama con la parola logos tanto il discorso, definito come la corrente che esce dall’anima per la bocca con un suono, tanto il pensiero, definito come il dialogo dell’anima con se stessa.

Analogamente possiamo dire che è nella controversia, nelle quali le parti confrontano dialetticamente le proprie pretese, che si pone la domanda di che cosa sia veramente il diritto. Nella controversia infatti la pretesa di ciascuno al suo si configura come domanda d’essere rispettato in ciò che lo diversifica dagli altri, ma è chiaro che tale diversità può essere definita solo a partire da ciò che ciascuno ha in comune con gli altri, ossia la naturale disposizione all’ordine per la quale è proprio dell’uomo in quanto tale rispettare il suo di ciascuno. Il giusto naturale.

In questo contesto non si può sfuggire alla domanda sul ruolo esercitato da linguaggio, posto che ogni passaggio del discorso, come della controversia, poggia sulla combinazione di nomi e di verbi.

È così che si viene come travolti da tutti problemi connessi alla correttezza dei verbi e dei nomi, del duplice genere di espressioni verbali dell’essere.

Per farvi fronte, un aiuto straordinario possiamo trovare nel dialogo tra Ermogene, Cratilo e Socrate:

– Ermogene sosteneva la tesi soggettivistica secondo cui qualsiasi uomo può dare un qualsiasi nome ad una qualsiasi cosa;

– Cratilo sosteneva invece l’assoluta appartenenza reciproca tra parola e cosa.

Il rigetto della tesi soggettivistica, della desostanzializzazione del linguaggio, non significa assumere immediatamente la tesi opposta e cioè della presupposta intrinseca connessione tra parole e cose.

In realtà il filosofo conduce i suoi interlocutori a mettere a fuoco il problema della funzione del nominare, che è funzione propria dei nomi, non derivante dalle scelte dei soggetti che nominano; ed è a questo punto che viene effettuato riferimento al conoscere e al comunicare, inteso come specifica finalità del nome.

In modo forse più evidente che in altri ambiti del comunicare, nell’ordinamento giuridico la positività fa dei precetti legislativi, amministrativi o giudiziari (ma anche dei contratti e degli atti unilaterali),un punto di riferimento sicuro per la convivenza tra gli uomini proprio perché consentono al giusto naturale di manifestarsi.

A questo punto sorge un problema posto dall’assunto del Politico secondo il quale sarebbe per tutti la cosa migliore che non avessero valore le leggi ma chi si intende veramente di governo essendo dotato di prudenza regia, le leggi e infatti non saranno mai capaci di cogliere nel medesimo tempo ciò che è il meglio e il giusto per tutti poiché le diversità che vi sono tra uomo e uomo non consentono la definizione in assoluto di qualcosa che valga in tutti i casi e in tutti i tempi.

Senonché, proprio per il fatto che l’uomo può attingere alla prudenza regia solo attraverso delle mediazioni successive e sempre provvisorie, viene in luce il ruolo del precetto giuridico il quale con la sua fissità consente agli uomini riuniti in comunità di praticare, in modo precario e provvisorio ma reale, quella forma suprema di giustizia che non soltanto le protegge ma che li fa diventare migliori.

E così siamo tornati alla conclusione da cui avevamo preso le mosse: solo nella controversia si danno giusto o ingiusto così come solo nel discorso si danno il vero e il falso. E poiché non si discorre né si controverte senza il medio del linguaggio, nella definizione del vero come del giusto il linguaggio esercita un ruolo determinante.

L’assertorietà del linguaggio con la sua resistenza alla problematicità del discorrere e del controvertere è la stessa determinazione dell’atto problematico intrinseca al controvertere e a discorrere.

Sicché senza l’assertorietà implicita nel linguaggio, la leva della problematicità avrebbe un’efficacia puramente illusoria e sarebbe vano cercare di discernere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto.

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