Aggravante speciale dell’omicidio colposo, sancita dall’art.589 comma 2, è la “violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. Lo stesso schema si ripete poi per le lesioni gravi o gravissime colpose.

L’omicidio colposo o le lesioni grave o gravissime commesse con “violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro” è presupposto della responsabilità da reato della persona giuridica, ai sensi del decreto 231/2001 (art.25 septies).

L’art.589 comma 2 (nonché le norme sulle lesioni gravi o gravissime colpose) parla precisamente di “infortuni”, mentre il decreto 231/2001 usa la più opportuna espressione di “norme sulla tutela della salute e sicurezza”. Si discute allora se all’aggravante in esame possano essere ricondotte le ipotesi di morte seguita alla malattia professionale. In effetti, un diverso trattamento tra infortunio e tecnopatia appare del tutto irragionevole, ma una diversa interpretazione sconfinerebbe in un’analogia in malam partem.

La giurisprudenza, tuttavia, nel tentativo di correggere la disparità di trattamento, estende la nozione di infortunio alla “malattia-infortunio”, ravvisata non solo nei casi in cui la tecnopatia derivi da un processo di causalità concentrata e violenta (come le radiazioni assorbite durante un incidente in una centrale nucleare) ma anche in ogni ipotesi di malattia dovuta ad aggressione continua di agenti esterni o da una pluralità di microtraumi.

Altro complesso problema interpretativo riguarda il rapporto tra l’art.589 comma 2 (e le altre norme sulle lesioni gravi o gravissime colpose) e l’art.437: quest’ultimo punisce chiunque omette di collocare o danneggia impianti o apparecchi destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro (comma 1), ed aggrava la pena qualora da ciò derivi un disastro o un infortunio non voluto (c.2).

Un certo indirizzo giurisprudenziale propende per il concorso di reati, affermando che l’art.589 tutela la vita come bene individuale, mentre l’art.437 tutela la vita come bene collettivo.

Si tratta di una soluzione inaccettabile, in contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale, nonché per il semplice fatto che la vita individuale è compresa nel concetto di vita collettiva.

In caso di concorso, dovrebbe prevalere l’art.437, secondo il criterio di specialità [ad ogni modo, come detto, la giurisprudenza applica il concorso di reati].

In materia di omicidio colposo commesso in violazione della normativa sulla sicurezza del lavoro, la giurisprudenza tende a sfruttare al massimo le potenzialità espansive dell’art.40 comma 2.

Si tende infatti ad imputare meccanicamente l’omesso impedimento dell’evento “infortunio” a tutti i soggetti destinatari di obblighi di sicurezza, a prescindere dall’esistenza di un effettivo e concreto potere di impedimento dell’evento, ed in particolare viene esclusa in radice una possibile assenza di responsabilità dei soggetti in posizione apicale.

Vediamo allora su cosa su quali basi si fonda tale orientamento giurisprudenziale:

  • Un ruolo decisivo è giocato dall’art.2087 c.c. che sancisce per il datore di lavoro la qualità di garante della salute e della sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo gli viene addebitato ex art.40 comma 2.

Critica: Si tratta però di una norma civilistica dettata in tema di responsabilità patrimoniale che non può essere automaticamente convertita in responsabilità penale.

  • La colpa del lavoratore non è in grado di esonerare, per causa sopravvenuta, il datore di lavoro da responsabilità. Una causa sopravvenuta potrebbe essere, secondo la giurisprudenza, solo quella condotta del lavoratore abnorme, eccezionale ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo, consapevolmente posta in essere contro le direttive ricevute, in violazione delle cautele imposte o al di fuori delle mansioni attribuite. In sostanza non si riconosce alcuna autoresponsabilità del lavoratore.

Critica: La negazione dell’autoresponsabilità del lavoratore è smentita dal d.lgs. 626/1994 che ha trasformato il lavoratore da mero destinatario passivo delle misure di prevenzione a partecipe attivo del sistema della sicurezza. Gli obblighi di sicurezza risultano pertanto dettati anche al fine di prevenire comportamenti negligenti del lavoratore.

Di conseguenza, atti di negligenza, imprudenza o imperizia da parte del lavoratore, non riferibili a carenze del sistema di sicurezza ma dipendenti da iniziative volontarie o da sue mancanze nell’apprendimento delle istruzioni ricevute, oppure atti di disubbidienza a specifiche direttive impartite, devono esonerare dalla responsabilità gli altri soggetti sovraordinati.

  • Infine la giurisprudenza nega la sussistenza, nell’attività lavorativa, di un’area di rischio consentito, proprio delle attività rischiose giuridicamente autorizzate. L’area di rischio consentito viene in sostanza accollato tutto al datore di lavoro, nella logica civilistica del rischio di impresa.

Critica: Tale concezione ignora i precetti che esplicitamente ammettono la persistenza di una qualche misura di rischio nell’attività lavorativa, disponendo che ove non sia possibile eliminare i rischi, l’imprenditore è obbligato alla loro riduzione al minimo.

Ciò è inoltre confermato dalla Corte di Giustizia secondo la quale gli obblighi incombenti sul datore di lavoro non implicano che egli sia tenuto a garantire un ambiente di lavoro privo da ogni rischio.

Questo ormai affermato orientamento giurisprudenziale appare in definitiva incompatibile con l’art.27 Cost, e non si concilia con la normativa sovranazionale che, pur essendo assai severa nella proclamazione della responsabilità del datore di lavoro, non esige forme di responsabilità oggettiva, né civile né penale.

La Corte di Giustizia nel 2007 ha infatti ritenuto conforme all’ordinamento comunitario (precisamente alla direttiva 89/391) una disposizione del Regno Unito che affermava l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori “nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile”.