Delineata la vera figura del risarcimento in forma specifica, e chiarita la natura propriamente risarcitoria di esso, si spiega la futilità della questione se il risarcimento in forma specifica sia da privilegiare in astratto rispetto al risarcimento per equivalente.

Il legislatore nell’adottare la regola del 2058 (Risarcimento in forma specifica) è rifuggito da una “trappola naturalistica”, la quale tenderebbe a privilegiare la misura giuridica di tipo specifico proprio per la sua “naturalità” od aderenza all’interesse da restaurare.

Se vogliamo ricercare una spiegazione di tale orientamento, essa si radica nella caratteristica della tutela risarcitoria, la quale non dà attuazione ad una situazione giuridicamente tutelata ma è volta a restaurare il patrimonio in una proiezione ipotetica che può rivelarsi più o meno distante da quella preesistente al fatto illecito o all’inadempimento.

L’illusione naturalistica che con la misura risarcitoria specifica si restauri meglio sul piano dei valori il diritto violato non presenta alcuna consistenza, perché si tratta di valutazione dinamica, o di proiezione valutativa, la quale non interessa la singola situazione soggettiva ma il patrimonio del quale essa fa parte.

Perché tra la violazione del diritto ed il risarcimento funge da medio la perdita patrimoniale subita, nella quale l’illecito ha trovato svolgimento e che diventa punto di riferimento decisivo ai fini della configurazione dell’obbligazione risarcitoria.

Onde la questione che unicamente può porsi in sede risarcitoria è se la modalità specifica od invece quella per equivalente sia la più conveniente in relazione al danno verificatosi.

Cosa, questa, che spiega il potere attribuito dal 2058 (Risarcimento in forma specifica) al danneggiato di chiedere, ove lo ritenga soddisfacente, il risarcimento in forma specifica, con i limiti dell’impossibilità e dell’eccessiva onerosità, rimettendo al giudice la valutazione circa quest’ultima.

L’impostazione così impressa alla lettura del fenomeno risarcitorio potrebbe essere contrastata solo espungendo quello in forma specifica dalla categoria del risarcimento del danno.

Ma se ciò avrebbe potuto avanzarsi come ipotesi in una situazione normativa che ignorava la figura in questione, ciò non è più consentito con il dato positivo vigente, che la disciplina al 2058.

La rubrica della norma fa parola di “Risarcimento in forma specifica”, onde la categoria “reintegrazione in forma specifica” che si rinviene nell’enunciato normativo non può che essere innervata in quella risarcitoria.

{L’idea sostenuta di recente da Cesare Cavallini non sembra rendere giustizia a questo aspetto: secondo tale autore la rivendica – la cui disciplina prevede al 948.1 ultima parte l’obbligo del convenuto qui dolo desiit possidere di corrispondere al rivendicante il valore della cosa non recuperata – realizzerebbe una funzione restitutoria assimilabile ad un risarcimento per equivalente, limitato però al solo danno emergente e non assoggettato all’onere della prova relativo al quantum, automaticamente identificato nel “valore della cosa”.

Ma la differenza tra restituzione e risarcimento consiste appunto nel danno, il quale sta oltre la restituzione, cioè si giustifica in quanto e per quanto la restituzione non si attui, e non può essere assimilato alla restituzione solo perché può coincidere parzialmente con essa: la restituzione ripristina il fatto in conformità al diritto mentre il risarcimento si riferisce alle conseguenze dell’offesa}.

E ciò non perché la rubrica possa prevalere in generale sulla norma in senso proprio, quanto perché la norma di specie è contenuta in quel Libro IV, Titolo IX interamente dedicato ai fatti illeciti, ed il 2043 (Risarcimento per fatto illecito) parla genericamente di risarcimento quale unica reazione prevista per il danno sicché il risarcimento in forma specifica non può che essere inteso come species del genus ipotizzato dalla norma generale e l’espressione “reintegrazione in forma specifica” come altro modo di chiamare, tecnicamente infelice, il risarcimento.

{L’equivalenza funzionale tra le due forme di risarcimento del danno è presupposta in una recente disputa in materia di costituzione successiva di un diritto personale di godimento su uno stesso bene a favore di più beneficiari.

La previsione del 1380 (Conflitto tra più diritti personali di godimento), nel momento in cui risolve il conflitto tra gli acquirenti successivi a favore di colui che, acquistando dopo, consegue per primo il godimento del bene, sembra escludere che in pari tempo l’acquisto posteriore possa qualificarsi illecito.

A favore di questa tesi Pietro Trimarchi ha sostenuto che se vi fosse illecito, ne dovrebbe derivare per l’acquirente l’ulteriore obbligo di risarcire in forma specifica, che sarebbe invece escluso per incompatibilità col 1380.

A questo argomento Francesco Donato Busnelli ha replicato che esso non è decisivo perché, al più, il 1380 renderebbe giuridicamente impossibile il risarcimento in forma specifica, cosa che non escluderebbe la responsabilità poiché la legge stessa presuppone per il risarcimento in forma specifica la possibilità, in mancanza della quale rimane il risarcimento per equivalente.

In realtà l’argomento ex risarcimento in forma specifica è circolare perché finisce col ripetere quello che è il punto di partenza, cioè il 1380, che come tale viene detto escludere la responsabilità, via impossibilità del risarcimento in forma specifica.

Il problema invece si pone proprio sul presupposto e al di là del 1380, norma che allora non potrà essere invocata pro o contro la responsabilità: se cioè nonostante questa norma si possa dare responsabilità dell’acquirente successivo che consegua il bene nei confronti del primo acquirente.

Se si vorrà concludere nel senso della responsabilità (ma allora occorrerà spiegare come l’attribuzione di un diritto possa coincidere con un fatto illecito), il 1380 potrà costituire un limite circa il quomodo, non circa l’an della stessa, non potendo l’impossibilità del risarcimento in forma specifica implicare di per sé l’esclusione della responsabilità.

A ben vedere, però, una tale possibilità neanche ricorre.

Anzitutto il 2058 (Risarcimento in forma specifica) sembra far riferimento ad un’impossibilità materiale; ma ove pure si volesse intendere ricompresa nella lettera della norma anche l’impossibilità giuridica, essa non ricorrerebbe nel caso del 1380, perché nel nostro sistema, come risulta dal 2038.2, in alternativa al pagamento dell’equivalente, l’obbligo di restituire in natura la cosa persiste pur quando la si sia alienata con la consapevolezza di doverla restituire e, proprio a causa dell’alienazione, ciò non sia possibile}.

È possibile argomentare anche in chiave comparatistica per ricavare l’appartenenza del risarcimento in forma specifica al genus risarcitorio.

Abbiamo visto come esso abbia origine negli ordinamenti germanici e come, per connotarlo, anche la dottrina francese abbia adottato alfine gli stessi elementi di identificazione che si ritrovano nel Codice civile tedesco (non in quello austriaco).

Orbene il § 249 BGB individua la Naturalherstellung come la prestazione che realizza lo stato di cose che esisterebbe se non fosse sopravvenuta la circostanza che dà àdito al risarcimento.

Ricorre sì il riferimento allo stato delle cose e non al patrimonio, ma in termini di differenza tra quello che esso è diventato dopo l’illecito e quello che sarebbe stato ove l’illecito non si fosse verificato.

E la differenza, intesa come misura dell’interesse da attuare col risarcimento, ha costituito l’ossatura fondamentale della disciplina del risarcimento nel diritto tedesco.

Una differenza da valutare pecuniariamente nel risarcimento per equivalente ed invece in natura in quello specifico.

Karl Larenz sul punto sottolinea che il § 249 non attribuisce al danneggiato una pretesa al ripristino dello stato di cose precedente, bensì all’approntamento di quello ipotetico che si sarebbe dato ove non si fosse verificato l’evento dannoso.

Esemplificando, se sono stati distrutti degli alberi, il risarcimento in forma specifica non consiste nel ripiantare alberi della stessa grandezza di quelli distrutti, ma alberi che siano grandi quanto al momento della riparazione lo sarebbero quelli distrutti.

Traducendo nelle categorie adoperate dal nostro Codice, ciò significa che il risarcimento in forma specifica ha per oggetto così il danno emergente come il lucro cessante, con ciò confermando il suo appartenere allo stesso genus del risarcimento per equivalente.

Certo il risarcimento in natura potrà non essere sufficiente a coprire l’intero lucro cessante, e così, nell’esempio fatto, la reintegrazione specifica non sarà in grado di restituire il valore dei frutti che nel tempo intermedio tra l’illecito e la riparazione gli alberi avrebbero prodotto.

Ma in questo caso si tratterà di combinare, come è universalmente riconosciuto, le due forme risarcitorie, integrando per equivalente quanto non sia risarcibile in natura.

Nel nostro ordinamento è lo stesso 2058 a consentire la reintegrazione in forma specifica pur quando essa sia solo parzialmente possibile, conseguendone che per la parte residua si provveda per equivalente.

Quanto precede consente di dare spiegazione della tesi sostenuta da Renato Scognamiglio, dell’unicità dell’obbligazione risarcitoria; la quale unicità ha come corollario che, divenuta impossibile la reintegrazione in forma specifica, dopo che sia stata disposta dal giudice o scelta dal danneggiato d’accordo col responsabile, quest’ultimo rimanga obbligato al risarcimento che allora sarà adempiuto per equivalente.

Alla luce di questo si rivela irricevibile l’idea che ricostruisce il risarcimento in forma specifica come una misura restitutoria alla quale può accedere il vero e proprio risarcimento del danno, inteso come risarcimento per equivalente.

In questa linea si colloca la tesi avanzata da Adolfo di Majo, il quale ritiene che il risarcimento in forma specifica sia appunto un rimedio più genericamente riparatorio, ulteriormente implicandone che allora lo stesso danno risarcito in forma specifica è qualcosa d’altro rispetto al danno risarcito per equivalente: e precisamente “la violazione del diritto e/o di interesse giuridicamente protetto”, rispetto alla quale il risarcimento “ha come scopo la reintegrazione del diritto”.

Già Renato Scognamiglio aveva ritenuto di individuare la riparazione in forma specifica “nella obbligazione del responsabile di ricostituire la situazione di fatto antecedente”, accedendo all’idea, di marca tedesca, che tale reintegrazione si attagli piuttosto ad un danno inteso in senso materiale, o naturalistico, che non al danno come differenza patrimoniale negativa propria del risarcimento per equivalente, e precisando che la nozione di danno concreto come pura infrazione fisicamente percepibile copre uno spazio più ristretto del danno ideale o danno interesse, specialmente perché “non comprende le conseguenze pregiudizievoli dell’evento”.

Ancor più recentemente, Cesare Salvi ha seguito l’idea che il risarcimento in forma specifica reagisca ad un danno diverso da quello risarcito per equivalente, ricavandone che nel primo caso il danno sarebbe quello materiale, che possiamo dire percepibile nel mondo reale, nel secondo il danno patrimoniale in senso proprio, misurato col criterio della differenza e dunque frutto di un computo ideale.

Il corollario che Cesare Salvi ne ricava è che lo stesso fatto, il danno ingiusto, è considerato e qualificato sotto due profili differenti a seconda che si tratti di applicare l’una o l’altra tecnica di risarcimento.

{Dello stesso orientamento, Cass. 2402/1998 afferma esservi differenza tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente e che essa “consiste nel fatto che nel primo la somma di denaro è calcolata sui costi di riparazione o di ripristino in genere della situazione materiale, mentre nel secondo è computata sulla base della diminuzione patrimoniale subita”.

Ma così il risarcimento in forma specifica diventa una variabile indipendente, in contrasto con un’idea di responsabilità come regola di una razionalità conseguita mediante la calcolabilità in anticipo del costo del danno e del costo di prevenzione di esso secondo la lezione di Guido Calabresi.

Non è calcolabile un danno che può esser liquidato in base a parametri diversi, dei quali non sia conoscibile a priori quale sarà adoperato; non è razionale una disciplina che faccia scaturire da una stessa condotta effetti alternativi diversi, rimettendone la scelta all’arbitrio del soggetto privato che possa trarre vantaggio da tale diversità.

Ancora una volta, però, l’ipotizzata diversità di costi si rivela frutto di un equivoco, perché se il risarcimento in forma specifica correttamente inteso non può che ripristinare, tenendo conto però dell’interruzione tra prima e dopo, la stessa situazione qualitativa e quantitativa che preesisteva al fatto responsabilità, il risarcimento per equivalente non può che essere il prezzo corrispondente a tale ripristino.

Secondo Cesare Salvi non deve ritenersi esclusa “la possibilità per la vittima di ottenere la sostituzione di un oggetto nuovo in luogo di quello vecchio distrutto o deteriorato”; l’arricchimento che la vittima conseguirebbe “discende dalla logica propria del risarcimento in forma specifica, che reintegra il valore d’uso, non quello di scambio”.

Io direi piuttosto che la logica del risarcimento impone che del valore d’uso, caratterizzato dall’utilità individuale del danneggiato, si possa tener conto fino a quando esso non diverga da quello di scambio, che rappresenta la dimensione sociale del valore}.

Ma una stessa categoria può essere considerata sotto profili diversi solo in quanto questi concorrano a disegnare la categoria medesima.

Quando invece, come si ipotizza nella tesi riferita, l’un profilo si pone come alternativo all’altro, sicché il danno può configurarsi come lesione materiale o come risultato ideale di un calcolo, si concepisce un quid che può essere indifferentemente qualcosa e qualcosa d’altro, con violazione del principio di identità.

Del resto l’alternativa rispetto al risarcimento per equivalente, con la quale il risarcimento in forma specifica è introdotto dal 2058 (Risarcimento in forma specifica), non consente di ritenere che il danno da risarcire sia diverso, ma impone invece di pensare al danno come ad una lesione giuridica alla quale consegue un ammanco, la quale è tale a prescindere dal mezzo risarcitorio che il danneggiato riterrà di scegliere.

{Come precisa Francesco Realmonte, “il danneggiato, qualora si avvalga della facoltà di scelta attribuitagli dall’art. 2058 c.c., non pretende il risarcimento di un danno ulteriore che si aggiunge alla perdita o alla diminuzione di valore del bene”, “la pretesa avanzata dall’attore mira al soddisfacimento del medesimo diritto di credito”}.

Simile conclusione collima oltre tutto col 2043, il quale, ponendo il danno ingiusto quale elemento oggettivo della fattispecie generale dell’illecito, impone di qualificare il danno come requisito unitario che non consente distinzioni.

Se intendessimo il danno, che in quanto ingiusto fa nascere la responsabilità e perciò diventa risarcibile, alla maniera di funzione o riflesso, come tale variabile, del rimedio risarcitorio di volta in volta prescelto, accoglieremmo una prospettiva viziata da un’inversione logica in quanto deriva l’essenza di un fenomeno da presunte differenze di conseguenze laddove solo un’accertata diversità del fenomeno può giustificare la diversità delle conseguenze.

{Proprio di inversione logica parla lo stesso Renato Scognamiglio quando afferma che vi cade chi vuol desumere la nozione del danno dalla natura del rimedio che la legge appresta contro di esso.

In senso conforme al testo, Massimo Franzoni.

Secondo Mario Barcellona le differenze di risultato economico delle due forme sono apparenti}.

Già da un altro punto di vista la conclusione alla quale siamo pervenuti trova comunque conferma.

Una è l’obbligazione risarcitoria della quale le due forme di risarcimento sono solo modalità alternative di attuazione.

Ora, se veramente fossero due le specie del danno risarcito in forma specifica o per equivalente, la conseguenza sarebbe l’impossibilità di reductio ad unum dell’obbligazione risarcitoria.

L’obiezione coglie in particolare Renato Scognamiglio, il quale, pur affermando l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, in pari tempo dà credito all’idea che il danno si configuri in maniera duplice secondo che si tratti di risarcimento per equivalente oppure di reintegrazione in forma specifica.

{Alessandro D’Adda ha abbracciato questa idea.

Egli, per giustificare la possibilità di costi diversi del risarcimento in forma specifica e di quello per equivalente, ipotizza che ognuna delle due modalità risarcitorie si riferisca a due nozioni diverse di danno, rispettivamente al danno in senso naturalistico e al danno come differenza patrimoniale.

Continuiamo a dubitare che un sistema possa adottare due nozioni diverse della medesima categoria.

Il sistema si ricostruisce non mettendo una norma contro l’altra, nella specie il 2058 (Risarcimento in forma specifica) contro il 2056 (Valutazione dei danni) ed il sistema risarcitorio richiamato da quest’ultimo, ma ricercando la coerenza}.

Quanto alla distinzione proposta da Adolfo di Majo, essa ascrive a due categorie separate quelli che invece nel nostro sistema d’illecito civile sono i due aspetti costitutivi del danno risarcibile.

Tale danno è da un lato connotato in maniera inscindibile dal requisito dell’ingiustizia, che individua la lesione di una situazione giuridicamente rilevante, ed in pari tempo dà vita all’obbligazione risarcitoria in quanto è conseguenza patrimoniale negativa della lesione.

Questo spiega perché non esistono e non possono esistere nel nostro ordinamento due specie di obbligazioni risarcitorie: la categoria unitaria del danno è fonte di un’obbligazione risarcitoria, per la quale l’ordinamento prevede due modalià alternative di attuazione che sono aspetti diversi di una sola entità.

{Si può parlare anche di obbligazione con facoltà alternativa (non “obbligazione alternativa”), nella quale la facultas solutionis, pur esercitata, non estingue l’obbligazione quando la prestazione scelta diventi impossibile (anche Renato Scognamiglio esclude che si possa parlare di obbligazione alternativa).

Una ragione dommatica è che la funzione riparatoria del risarcimento sarebbe gravemente incrinata se il danneggiante potesse esser liberato dall’obbligazione solo per il diventare impossibile della modalità riparatoria in natura.

Un secondo argomento è desumibile dal 2058, che prevede il risarcimento in forma specifica se questo sia possibile, senza distinguere secondo che tale impossibilità preesista o si verifichi successivamente alla domanda del creditore.

Pier Giuseppe Monateri non coglie i risvolti di diritto sostanziale sottesi alla scelta quando ritiene assurdo che si affronti il problema di qualificare quest’ultima.

Secondo che si parli di obbligazione alternativa o con facoltà alternativa cambia radicalmente la posizione del debitore e del creditore quando sopraggiunga l’impossibilità della reintegrazione in natura.

Inoltre parlare della domanda di risarcimento in forma specifica come di un atto meramente processuale, rivolto al giudice e non all’altra parte, significa non rendersi conto che tale atto non riguarda semplicemente l’andamento del processo, ma è volto a soddisfare interessi di colui che lo pone in essere.

E la conseguenza che ne deriva, che il debitore debba reintegrare in natura o per equivalente, muta la prestazione per il debitore ed il significato della stessa per il creditore}.

Se non si dovesse concludere in tal senso si presenterebbe una questione di legittimità, ex 3 Cost., del 2058, il quale si configurerebbe come norma portante un’obbligazione risarcitoria di contenuto economico diverso, che ad arbitrio del danneggiato potrebbe esporre il responsabile ad un costo del risarcimento superiore al costo di quello per equivalente.

 

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