L’identità propria della reintegrazione in forma specifica come modalità di adempimento dell’obbligazione risarcitoria è stata sfigurata in una ricostruzione processualistica.

Secondo Luigi Montesano «un’attenta analisi dell’art. 2058 mostra che il risarcimento, quando non avviene, secondo le regole ordinarie, per “equivalente”, può essere attuato per mezzo della “reintegrazione in forma specifica”, che, dovendo essere attentamente valutata dal giudice, anche per escluderla “quando risulti eccessivamente onerosa per il debitore” è sicuramente descritta dalla norma come un’operazione o un insieme di operazioni che, svolta sotto il giudiziario controllo, sono necessario strumento per il giudizio di quantificazione del danno”.

Montesano conclude dicendo che “Il giudizio, cui fa generico riferimento l’art. 2058 c.c., consta di due processi di cognizione o di un processo di cognizione diviso necessariamente in due fasi: il primo o la prima si chiude con la sentenza costitutiva determinativa delle attività di reintegrazione; il secondo o la seconda che comprende il giudiziario controllo di queste attività, si chiude con la condanna al risarcimento in denaro, necessariamente commisurato […] al costo della reintegrazione”.

Si deve anzitutto obiettare che l’unicità dell’obbligazione risarcitoria non consente un risarcimento che sia rappresentato da valori difformi a seconda della modalità in concreto adottata.

Ma è tutto il modello – costruito di sana pianta – che si rivela eccessivo.

Invero, alla base di esso è annidata una falsa rappresentazione della incoercibilità degli obblighi di fare, la quale viene identificata con l’inattuabilità degli stessi nei termini dell’ordinario adempimento di una obbligazione.

Solo una tale idea può indurre infatti l’autore in questione ad ipotizzare che in ogni caso la reintegrazione in forma specifica debba realizzarsi come attività svolta dal danneggiato sotto un giudiziario controllo che si conclude con la liquidazione di una somma; con l’esito inevitabile di trasformare, a carico del danneggiante, la reintegrazione stessa in un risarcimento per equivalente.

Le due modalitĂ  risarcitorie hanno un contenuto diverso, essendo il risarcimento per equivalente obbligazione di dare ed il risarcimento in forma specifica obbligazione di fare.

Con quest’ultimo, infatti, il danno viene eliminato dalla sfera giuridica del danneggiato mediante una condotta del danneggiante che abbia contenuto esattamente contrario a quella che ha cagionato il danno: si tratta di disfare ciò che è stato fatto illecitamente, di undo.

Lo chiarisce anche il BGB, che chiama Herstellung (al § 249) la riparazione in natura: Herstellung significa “costruzione”, “produzione”, con un richiamo esplicito al fare, come del resto anche nella lingua italiana significa originariamente il termine “riparazione”.

Non sempre è possibile questo fare al contrario, come avverte lo stesso 2058, prendendo in considerazione la necessità che la reintegrazione in forma specifica […] sia in tutto o in parte possibile.

Del resto, se non sussistessero tali differenze, il legislatore avrebbe dovuto evitare un risarcimento in forma specifica, che finirebbe col tradursi in una pura inversione di operazioni rispetto a quello per equivalente, considerando altresì che gli esiti sul piano economico non possono non essere uguali, mentre i costi di amministrazione del danno sarebbero molto più elevati a cagione del “giudiziario controllo” che si aggiungerebbe alla prima pronuncia circa la responsabilità e la reintegrazione.

Il fatto che gli obblighi di fare non siano coercibili per Luigi Montesano si trasforma in un non essere nemmeno suscettibili di diventare oggetto di una pronuncia di condanna, col che si identificano indebitamente due profili diversi: quello dell’obbligazione come vinculum iuris e quello dell’adempimento di essa.

Il fatto che tale adempimento non sia coercibile viene inteso come un’indicibilità, da parte del giudice, dell’obbligazione di reintegrare.

{La giurisprudenza correttamente scandisce i due momenti del risarcimento in forma specifica e dell’esecuzione forzata, ammettendo la “possibilità di una condanna alla reintegra della situazione materiale nonché, in mancanza di adeguamento spontaneo [id est: adempimento dell’obbligazione risarcitoria] da parte dell’obbligato, il ricorso all’esecuzione forzata degli obblighi di fare” (Salvatore Mazzamuto).

Non corrisponde a questo modello la domanda del danneggiato che, avendo provveduto alla riparazione della cosa danneggiata, domandi il ristoro della spesa al danneggiante.

In questo caso la perdita subita dal danneggiato non è relativa alla diminuzione patrimoniale-conseguenza della lesione del diritto perpetrata mediante l’infrazione del bene che ne è oggetto, bensì al costo necessario a ripristinare il bene nel suo valore d’uso.

Non si può parlare però nemmeno di riparazione in natura, perché questa manca di presupposto nel momento in cui la cosa è già stata riportata allo stato funzionale che la caratterizzava prima dell’evento dannoso.

Qui il danno non è più l’equivalente della perdita subita bensì del costo necessario per il ripristino, il quale anch’esso non può costituire un costo diverso dal valore distrutto.

Alessandro D’Adda parla in proposito di “risarcimento pecuniario in forma specifica”, senza rilevare che si tratta di una terza figura, che partecipa della doppia natura del risarcimento per equivalente quanto alla modalità e di quello in forma specifica quanto al costo (presunto diverso ed eventualmente maggiore), di per sé non prevista dalla nostra legge e di puro conio giurisprudenziale.

Non sposta il problema per il diritto italiano che il BGB preveda al § 249.2, in luogo della riparazione in natura, il pagamento della somma necessaria a tal fine, perché nel diritto italiano la norma non ricorre.

Più ancora, non è prevista la primazia della riparazione in natura in luogo di quella per equivalente, con quel che ne consegue in ordine all’individuazione del parametro al quale la prestazione pecuniaria deve far riferimento.

Se cioè nell’ordinamento tedesco, scelta la riparazione in natura come modalità primaria del risarcimento, l’alternativa del costo necessario a realizzarla si configura come un corollario, in diritto italiano la reciproca è che, scelto il risarcimento per equivalente come modalità primaria, il risarcimento in forma specifica non possa superare sul piano dei costi i confini propri del primo}.

Con la conseguenza che la prima pronuncia finisce col porre necessariamente a carico del danneggiato il compimento delle opere riparatorie sub specie di onere in senso tecnico {l’onere è definibile come la situazione giuridica attraverso la quale l’ordinamento impone ad un soggetto di comportarsi in un determinato modo se questi vuole ottenere un qualche vantaggio}, in quanto solo dopo averle realizzate il danneggiato può, ricorrendo al giudiziario controllo, dare un oggetto al proprio diritto al risarcimento per equivalente: il credito risarcitorio si trasforma da diritto ad una prestazione in un comportamento attuativo dell’onere che solo è in grado di rendere attuale il diritto.

Lo stesso Luigi Montesano rileva che il 2058 non prevede “quale sia lo strumento processuale della reintegrazione specifica sotto giudiziario controllo”, ma invece di verificare il suo punto di partenza (la necessità del giudiziario controllo), si dedica alla costruzione del modello processuale ritenuto mancante.

Modello che risulta identico a quello previsto per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, con buona pace della distinzione tra reintegrazione in forma specifica ed esecuzione forzata specifica, che lo stesso autore accoglie in limine.

Infatti viene obliterata la natura di obbligazione del risarcimento in forma specifica, obbligazione la quale è vinculum iuris naturalmente proteso all’adempimento, non all’inadempimento, onde le conseguenze giuridiche che sono riconnesse dalla legge a quest’ultimo suppongono che sia prevista la possibilità di adempiere e che l’adempimento non si sia verificato.

Un’obbligazione alla quale sia originariamente negato l’adempimento è una pura soggezione all’esecuzione forzata.

Perciò Cass. 2402/1998 ha bene affermato che qualora si richieda il risarcimento in forma specifica, la domanda può consistere sia nella pretesa che il debitore stesso provveda al ripristino come nella domanda di una somma di denaro corrispondente alle spese necessarie per tale ripristino.

Ma nella seconda ipotesi è rimasto solo il nome del risarcimento in forma specifica: si tratta di un risarcimento per equivalente, diverso solo per il parametro di commisurazione, ma il cui esito economico finale non potrà essere difforme da quello del risarcimento per equivalente in senso proprio.

La ricostruzione di Luigi Montesano, invece, nell’imporre tout court l’esecuzione forzata di un obbligo di fare, la quale può aver titolo solo nell’inadempimento, come precisano gli artt. 2930-2933 [2930: Esecuzione forzata per consegna o rilascio; 2931: Esecuzione forzata degli obblighi di fare; 2932: Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto; 2933: Esecuzione forzata degli obblighi di non fare], ipotizza come inevitabile l’inadempimento dell’obbligazione risarcitoria in natura, obliterando il naturale momento intermedio dell’attuazione spontanea del rapporto obbligatorio, la quale non può mancare neanche quando si tratti di obblighi incoercibili, attenendo l’incoercibilità al profilo dell’attuazione coattiva, non di quella spontanea, la quale si chiama adempimento.

Arturo Dalmartello e Giuseppe Benedetto Portale chiariscono che l’azione di esatto adempimento non è incompatibile con l’incoercibilità degli obblighi di fare e che affermare il contrario significherebbe confondere il profilo dell’obbligo con quello dell’esecuzione: alle loro affermazioni va solo aggiunta la precisazione che il cosiddetto esatto adempimento è in realtà risarcimento in forma specifica}.

 

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