La difficoltà con la quale la figura del risarcimento in forma specifica è stata colta nelle sue fattezze può sollecitare il dubbio se non sia il caso di ritornare al vecchio modello francese nel quale tra risarcimento per equivalente ed esecuzione in forma specifica tertium non datur.

{La distinzione vigente in common law, ma solo con riguardo alle obbligazioni contrattuali, tra damages e specific performance corrisponde invece a quella tra risarcimento per equivalente e risarcimento in forma specifica.

La specific performance infatti consiste nella condanna all’esatto adempimento (cfr. per tutti Friedrich Kessler e Grant Gilmore), la quale non è altro che risarcimento in forma specifica}.

Tanto più che la reintegrazione in forma specifica può apparire un retaggio obsoleto dell’istanza che regge l’intero fenomeno giuridico: quella di mettere il fatto in pari col diritto.

Istanza che rischia l’utopia quando si insegua l’illusione che col risarcimento in forma specifica quod factum est infectum fieri possit [ciò che è stato fatto può diventare non-fatto].

Illusione che diventa facile quando si pensi ad un risarcimento in forma specifica nel quale si enfatizzi la funzione restitutoria: quest’ultima ricorre semmai sul piano materiale ma non rileva sul piano formale.

In ogni modo vale, anche nella prospettiva del risarcimento in forma specifica la considerazione ormai ultracentenaria (già presente in Victor Mataja) che il danno non si cancella col risarcimento, ma si sposta solo su una sfera giuridica altra da quella nella quale la lesione si è verificata.

E questo assunto ci induce in pari tempo ad affermare che il risarcimento, proprio perché rappresenta un costo, non ne può diventare uno maggiore del danno.

{In quest’affermazione si incontrano la teoria tradizionale, per la quale il risarcimento non può costituire arricchimento per il danneggiato, e l’analisi economica del diritto, nella quale costo del danno e risarcimento coincidono, presupposto sul quale si pone la questione della responsabilità come ricerca della sfera giuridica più idonea a sopportare il danno: così Guido Calabresi, Costo degli incidenti}.

Sempre confermando l’idea che la reintegrazione dovrà essere aderente alla lesione prodotta fino a quando tale aderenza non si riveli antieconomica, sarebbe tempo che al bisogno di evitare un risarcimento per equivalente talora insoddisfacente facesse riscontro una maniera di intendere la reintegrazione in forma specifica che non sia più tanto preoccupata di mimare lo stato pregresso nell’intento irrealizzabile di cancellare il danno, ma sia piuttosto orientata a risolvere nel modo concretamente più adeguato le conseguenze negative nelle quali l’illecito si converte per il danneggiato.

Questo non significa che sia possibile ampliare lo spettro normativo del 2058 (Risarcimento in forma specifica) fino a farne norma entro la quale inquadrare un rimedio inibitorio generale, come invece ha sostenuto Mario Libertini.

{Secondo Cristina Rapisarda il fondamento di una inibitoria atipica quale misura di tutela generale non può trovarsi nelle norme che disciplinano la responsabilità civile, ed in particolare nel 2043 (Risarcimento per fatto illecito) o, alternativamente, nel 2058: un orientamento del genere sarebbe viziato “dall’erronea premessa […] che la tutela inibitoria costituisce un rimedio contro il danno”.

Questa critica è conforme a quanto si afferma in questa sede.

Ma Cristina Rapisarda ritiene che il presupposto della tutela inibitoria sia costituito “dall’illecito non dannoso”, il quale “rientra nella nozione di illecito extracontrattuale prevista dalle norme in vigore ed ha quindi una portata generale e non già ristretta in singoli casi in cui viene espressamente regolata”.

L’assunto è criticabile nella premessa e nelle conclusioni.

Anzitutto nel sistema del Codice civile non si dà un fatto illecito che non sia tale in quanto in pari tempo dannoso: è solo nel Libro IV (Delle obbligazioni), Titolo IX (Dei fatti illeciti), ed in particolare nel 2043 (Risarcimento per fatto illecito), che la categoria “fatto illecito” viene adoperata, ed in funzione di una precisa conseguenza giuridica, il risarcimento del danno, sul presupposto dell’ingiustizia e del danno stesso: illiceità ed ingiustizia sono categorie autonome ma necessariamente implicantisi a vicenda nella costruzione normativa dell’illecito civile.

La scissione tra illiceità ed ingiustizia è pensabile solo ove si faccia riferimento al danno come mera diminuzione patrimoniale non tenendo presente che nella fattispecie del 2043 (Risarcimento per fatto illecito) l’ingiustizia lo presuppone perché ne è necessaria qualificazione.

Quanto alla conclusione di Cristina Rapisarda, non si vede come dall’assunto che l’illecito civile possa esser tale senza esser dannoso possa tout court ricavarsi la possibilità giuridica dell’inibitoria atipica, la quale avrebbe pur sempre bisogno di una previsione normativa, così come per l’illecito dannoso provvede il 2043 (Risarcimento per fatto illecito), con la previsione del risarcimento del danno.

Inoltre non sembra coerente con la tesi criticata l’affermazione secondo cui l’inibitoria sarebbe esperibile anche prima che l’illecito sia stato commesso.

Penso piuttosto a sanzioni alternative che in materia di danno morale siano volte a soddisfare l’interesse leso senza che si possa parlare di risarcimento in forma specifica stricto sensu.

Il caso più rilevante è quello della pubblicazione della sentenza, discusso nel nostro ordinamento circa il suo appartenere o no alla reintegrazione in forma specifica.

{In ogni caso il 186 c.p. (Riparazione del danno mediante pubblicazione della sentenza di condanna) prevede la sanzione in questione quale mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato}.

La pubblicazione della sentenza è disciplinata dal Codice di procedura civile al 120 (Pubblicità della sentenza) e, per il danno non patrimoniale, dal 186 c.p.

Risarcimento in forma specifica in senso proprio è invece l’obbligo, affermato da Trib. Milano 19 febbraio 2001, a carico di una banca che aveva fatto una segnalazione erronea di “sofferenza” alla centrale rischi interbancari, di trasmissione alla centrale medesima di copia della sentenza, con indicazione dell’erroneità della segnalazione previamente effettuata.

Appare però discutibile l’ancoraggio al 2058 (Risarcimento in forma specifica).

Se, come afferma lo stesso Tribunale, si tratta di responsabilità contrattuale, il risarcimento in forma specifica va inquadrato sistematicamente nella relativa disciplina.

In tal senso non basta “stimare ormai acquisita l’operatività del rimedio anche sul fronte della responsabilità contrattuale” {Ugo Minneci}, il quale, nel commentare Trib. Milano 19 febbraio 2001, lavora sull’equivoco di un’affermazione che fa il giudicante dell’astratta possibilità di un danno patrimoniale, alla quale però non segue alcuna pronuncia risarcitoria, e di un risarcimento in forma specifica, pronunciato dal giudice ma riferito esclusivamente al danno non patrimoniale): occorre spiegare quale sia la regola, e questa non può essere il 2058 (Risarcimento in forma specifica), riferito dalla legge esclusivamente alla responsabilità aquiliana.

Ci guida a rispondere nel senso che il risarcimento in forma specifica abbia luogo anche nella responsabilità contrattuale da un lato la Relazione al codice, dall’altro il modello che abbiamo fatto emergere come proprio del risarcimento in forma specifica nell’àmbito contrattuale.

Si tratta dell’adempimento in natura, che il creditore può domandare al debitore in caso di inadempimento.

Ora se l’inadempimento, come in questo caso, consiste nell’aver fatto ciò che non si doveva fare (trattandosi di un obbligo di protezione, la logica è quella della culpa in faciendo, come nella responsabilità aquiliana), l’azione di adempimento include la domanda di porre in essere la condotta esattamente contraria a quella tenuta.

Come dicemmo prima, si tratta di disfare o, richiamando ancora il parimente efficace inglese, undo, fare il contrario di ciò che si è fatto in violazione dell’obbligo.

Certo, prima di porre in essere la condotta illecita in capo al debitore non esisteva l’obbligo di fare alcunché, ma come indica il 2933 (Esecuzione forzata degli obblighi di non fare) la natura degli obblighi di non fare pone la questione dell’adempimento necessariamente dopo che si è verificato l’inadempimento; e l’adempimento non può che consistere letteralmente nel disfare il fatto illecito.

Né in tal modo si finisce col confondere quanto abbiamo detto di dover tenere distinto: il risarcimento e l’esecuzione specifica, che in questo caso troverebbe disciplina nel 2933.

Nel risarcimento come attuazione esatta dell’obbligo infatti è ancora il debitore che deve e può porre in essere la condotta dovuta, nelle forme dell’adempimento, laddove in executivis è la forza al servizio del giudice a dover provvedere, anche contro la volontà del debitore.

La l. 349/1986 al 18.8 prevede un ripristino dello stato dei luoghi che è un vero e proprio risarcimento in forma specifica.

Dal menzionato 18 l. 349/1986 non è facile trarre un risultato ermeneutico coerente.

Infatti, a tenore del comma VI, Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

Ed il comma VIII conclusivamente aggiunge che Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.

Avevo inizialmente delineato così il significato delle disposizioni in esame:

il danno all’ambiente è di natura non patrimoniale;
la condanna al ripristino dello stato dei luoghi è risarcimento in forma specifica e deve essere pronunciata dal giudice, ove il ripristino sia possibile, in via prioritaria;
in tal caso il risarcimento previsto dal 18.6 va considerato come rimedio ulteriore ed aggiuntivo, del quale viene messa in evidenza la natura sanzionatoria nel momento in cui il valore distrutto viene recuperato attraverso il cosiddetto ripristino;
la disciplina del 18 è residuale rispetto a quella del 2043.

Beneficiando della meditazione sul risarcimento in forma specifica, è possibile precisare e correggere il risultato ermeneutico appena riferito: il danno ambientale rimane danno non patrimoniale, ma:
esso è esclusivamente quello disciplinato dal 18.6;
del ripristino di cui al comma VIII va confermata la natura di risarcimento in forma specifica, ma di un danno patrimoniale del tutto riconducibile alla fattispecie del 2043;
viene confermata la natura residuale del danno ambientale quale danno non patrimoniale che o si aggiunge al ripristino ovvero rimane unica sanzione quando il ripristino non sia possibile;
integrato il ripristino nel modello del danno patrimoniale adottato dal codice, il modello stesso ne risulta modificato in quanto ogni volta che ricorra la lesione di una situazione giuridica soggettiva avente ad oggetto beni ambientali il risarcimento in forma specifica in cui consiste il ripristino non sarà una facoltà concessa al danneggiato nei termini del 2058, ma un dovere del giudice che lo stabilirà in quanto possibile ogni volta che sia proposta domanda di risarcimento.

La considerazione conclusiva è che in materia ambientale il risarcimento in forma specifica è diventato, da alternativa eventuale, modello prioritario di risarcimento.

L’equivalenza funzionale delle due modalità di risarcimento risulta invece confermata nelle materie confidate alla giurisdizione del giudice amministrativo, relativamente alle quali la legge (il 35 del d. lgs. 80/1998, nel testo modificato dal 7 l. 205/2000) fa parola di risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.

È però significativo che il legislatore ribadisca che per risarcimento del danno debba intendersi anche quello in forma specifica, tanto più che l’esservi obbligata la p.a. avrebbe potuto far ritenere più adeguata ad una malintesa idea di sovranità la sola modalità per equivalente.

Perciò è difficile pensare, complessivamente, ad un’inversione di tendenza che capovolga il rapporto di rilevanza tra il risarcimento in forma specifica ed il risarcimento per equivalente.

Si deve però prendere atto che nei termini in cui la l. 349/1986 ha messo in primo piano il risarcimento in forma specifica, viene a cessare l’equivalenza funzionale tra le due forme risarcitorie; e l’ordinamento mette in luce una nuova attitudine a preferire il risarcimento in forma specifica quando la natura dell’interesse tutelato induca a ritenere più congrua tale modalità riparatoria.

 

Richiedi gli appunti aggiornati
* Campi obbligatori

Lascia un commento