Sul piano applicativo il profilo più importante che emerge dalla tesi dell’unità di natura del danno e dell’identità di funzione del risarcimento, assuma quest’ultimo l’una o l’altra forma prevista dalla legge, è l’inaccettabilità dell’idea secondo la quale ove le attività di reintegrazione siano svolte dallo stesso danneggiato, sicché l’obbligazione del responsabile finisca col diventare pecuniaria, il quantum sarebbe fissato “con criteri differenti che nel risarcimento per equivalente, essendo calcolato sui costi del ripristino e non in base ai criteri cui rinvia l’art. 2056” {Cesare Salvi; Adolfo di Majo; Maria Cristina Ebene Cobelli}.

Si tratta di un orientamento che si rinviene nella nostra giurisprudenza ed è riscontrabile nella dottrina tedesca.

Ma gli interpreti tedeschi hanno a disposizione un dato normativo diverso dal nostro.

Il § 249 BGB anzitutto mette in evidenza una sovraordinazione del risarcimento in forma specifica rispetto a quello per equivalente, poiché quest’ultimo è contemplato nelle disposizioni dei § 250 e 251.

Ancor più significativamente, il § 251 prevede il risarcimento per equivalente solo quando quello in forma specifica non sia possibile.

Ne risulta una logica rovesciata rispetto al 2058 (Risarcimento in forma specifica), il quale invece prevede il risarcimento in forma specifica come una modalità risarcitoria eventuale, rimessa ad una scelta che il danneggiato deve fare esplicitamente, quando ciò sia in tutto od in parte possibile.

Ancora più significativamente, la primazia della Naturalrestitution pone il costo in cui essa consiste, ove se ne ammetta la diversità rispetto al costo del risarcimento per equivalente, a parametro di riferimento del costo del risarcimento in quell’ordinamento giuridico, laddove nel nostro ordinamento l’ordinarietà del risarcimento per equivalente rispetto alla semplice eventualità del risarcimento in forma specifica rovescia i termini della questione.

Il § 249.2 BGB prevede poi che il creditore può, in luogo della Naturalherstellung, esigere il valore necessario a realizzarla: ed è con riguardo a tale previsione che Karl Larenz con la giurisprudenza tedesca può affermare che si tratta di pretesa diversa da quella al risarcimento per equivalente.

Una norma simile non ricorre nel nostro ordinamento.

Inoltre l’orientamento riferito è corollario dell’idea, nata sempre in Germania, del danno reale o materiale (Karl Larenz) quale danno diverso da quello di puro calcolo, che invece ricorre nel risarcimento per equivalente.

È opportuno aggiungere che proprio la considerazione di un risarcimento che avrebbe un significato patrimoniale diverso in funzione della norma adottata mette in guardia nei confronti di un esito di tal genere.

Il responsabile andrebbe incontro a costi diversi a seconda che il danneggiato intenda o meno optare per la reintegrazione in forma specifica e che il singolo giudice reputi quest’ultima di volta in volta adeguata od eccessivamente onerosa.

Con l’ulteriore implicazione che ciò che chiamiamo responsabilità civile intendendo descrivere un fenomeno unitario si troverebbe inspiegabilmente fratto in due tronconi.

Perciò non sembra che la soluzione tedesca sia il modello da seguire.

Se si guarda all’essenza del danno e del rimedio risarcitorio, si rileva che gli esiti sdoppiati sono frutto di una sorta di strabismo dottrinale e giurisprudenziale.

Ritenere cioè che le spese necessarie alla reintegrazione in forma specifica possano esser diverse dal quantum di danno risarcibile per equivalente significa non intendere che il risarcimento, quale che ne sia la forma, non può che reintegrare la sfera giuridica del danneggiato, pregressa ed eventuale, nello stato in cui si sarebbe trovata ove l’illecito non si fosse verificato {secondo Angelo Chianale la nostra tesi non terrebbe conto di eventuali aumenti del costo di reintegrazione verificatisi dopo la sentenza di condanna; in realtà il danno è ristorato non al momento della condanna ma a quello dell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria; e la necessità di tenere conto di eventuali revisioni di costo va rapportata a questo momento, quale che sia la modalità del risarcimento}.

Ne consegue che il costo delle opere materiali per realizzare tale risultato, se può essere inferiore al costo del danno – nel qual caso sarà necessaria la combinazione, per il residuo, col risarcimento per equivalente – non potrà mai essere superiore, perché un risarcimento che sia superiore al danno da risarcire è una contraddizione in termini.

Il di più che eventualmente si aggiungesse al costo del danno costituirebbe un’aggiunta di pari misura al patrimonio del danneggiato, di più che non può esser fatto gravare sull’autore dell’illecito perché questi risponde solo del danno.

Quando ci si chiede allora se con la reintegrazione in forma specifica si possa costituire nel patrimonio del danneggiato un valore maggiore di quello distrutto, si pone un pseudoproblema, la cui soluzione è implicita nella corrispondenza tra danno e risarcimento.

Si potrebbe ritenere che simile conclusione possa rivelarsi inadeguata dal punto di vista del valore d’uso; perché qualora si intenda ripristinare quest’ultimo è possibile che ricorra un costo superiore al valore di scambio.

È il caso del pezzo di ricambio nuovo che ne sostituisca uno vecchio ma ancora funzionante al momento in cui l’autovettura è stata danneggiata.

Ritenere che la reintegrazione in forma specifica questo consenta, significa dover ammettere che un’intera vettura usata che sia distrutta in un incidente debba esser sostituita con una nuova a spese del danneggiante, e a tale conclusione nessuno si sentirebbe di giungere.

A stretto rigore il pezzo sostitutivo deve possedere le stesse caratteristiche di usura di quello sostituito sicché, ove ne fosse imposto il reperimento, l’eccessiva onerosità per il danneggiante dovrebbe indurre ad una condanna per equivalente pur quando, come si esprime il 2058 (Risarcimento in forma specifica), la reintegrazione in forma specifica non sia di per sé impossibile.

In questo senso appare non spiegata e perciò arbitraria una conseguenza che nell’ordinamento tedesco la giurisprudenza trae in corollario di una Naturalrestitution concepita quale figura del tutto autonoma dal risarcimento per equivalente: che cioè, di fronte al dettato del § 251.2, ove si prevede il risarcimento per equivalente quando quello in forma specifica risulti eccessivamente oneroso, tale eccessiva onerosità viene ritenuta dalla giurisprudenza quando la reintegrazione specifica superi del 30% il valore di sostituzione della cosa danneggiata.

Dire che il danneggiante in questo caso sopporta il rischio di tale valutazione {Othmar Jauernig} (se non si supera la detta percentuale, si dovrà ugualmente il risarcimento in forma specifica, se la si supera si potrà risarcire per equivalente) aggiunge un’incertezza di fondo alla regola di responsabilità che nessuna ragione è in grado di giustificare.

In assenza di una tale giustificazione l’eccessiva onerosità di cui analogamente è parola nel 2058 (Risarcimento in forma specifica) va allora intesa in altra maniera da come la si intende in Germania.

Anzitutto il termine di riferimento per valutare l’eccessiva onerosità non può essere il costo della cosa nuova, che rappresenta un valore diverso per definizione da quello della cosa usata ed usurata che è stata danneggiata, bensì proprio il valore di quest’ultima.

In secondo luogo, rispetto a tale ultimo valore, che rappresenta il costo massimo del risarcimento per equivalente, il costo della reintegrazione in forma specifica non dovrà risultare superiore.

È il principio che in Francia Philippe Le Tourneau e Loïc Cadiet ricavano dalla giurisprudenza: se il massimo che la vittima può domandare è il costo di sostituzione del bene, la riparazione in forma specifica che tenda al recupero della cosa danneggiata ma costi più del valore che la cosa aveva prima dell’evento lesivo non può essere consentita.

Nel linguaggio del 2058 si tratterebbe di una riparazione in natura eccessivamente onerosa.

Quello appena individuato si presenta come il criterio certo lungo il quale attestare la linea di separazione tra risarcimento in natura consentito oppure no.

Ma si tratta di darne una spiegazione, dato che di per sé la reintegrazione in forma specifica dovrebbe riguardare la restituzione della cosa danneggiata nello stato in cui si trovava, non la sostituzione con un’altra, salvo che la cosa non sia andata distrutta.

In effetti, la riparazione in natura esigerebbe la sostituzione di tutto quanto danneggiato con ricambi di pari natura e grado di usura, per il rispetto dell’equivalenza tra danno e risarcimento.

Poiché ciò il più delle volte non è possibile, si provvede con pezzi nuovi, che evidentemente costano più di quelli danneggiati.

Ma tale costo non può superare il valore che ha la cosa tutta al momento della lesione.

Infatti, poiché il risarcendo avrebbe diritto alla sostituzione di essa nel caso di impossibilità di sostituzione delle singole parti danneggiate con altre funzionanti, il costo di sostituzione dell’intero rappresenta il valore oltre il quale non si potrà andare quando, in alternativa alla sostituzione integrale, si provveda con quella parziale che però rinnova la cosa.

Questa conclusione non è aliena dall’elasticità insita nell’eccessiva onerosità richiamata testualmente dal 2058 ([…] il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore).

{La fa valere Cesare Salvi, affermando che “il limite della eccessiva onerosità concerne infatti l’entità del costo per il debitore: non già del costo del danno in sé”, il che è vero, salvo tener presente che i due costi non possono divergere}.

Essa è però rigorosa come impone una regola di responsabilità che esige la calcolabilità previa del costo del danno.

A tal fine essa appresta il punto fermo necessario.

Qui sta infatti l’elemento di crisi delle tesi che, facendo valere il richiamo al potere del giudice che la eccessiva onerosità mette in gioco, non trovano poi il modo per ricondurre un modello normativo siffatto all’esigenza propria di una regola di responsabilità quale prima l’abbiamo richiamata.

{È il problema che rimane irrisolto ad Alessandro D’Adda, alla fine di un intero capitolo dedicato alla definizione dell’oggetto della riparazione in natura, ove si tocca l’acme della discutibilità nell’affermare: “Non sembra che gli eventuali arricchimenti resi necessari al fine di reintegrare il bene nell’originario assetto siano ingiustificati ai sensi dell’art. 2041 c.c. [Azione generale di arricchimento]”.

Un risarcimento che possa diventare fonte di arricchimento sembra invero una contraddizione in termini, come precisava già Friedrich Mommsen nel 1855}.

Il riferimento è pur sempre ad un costo determinato, che non dipende dalla valutazione del giudice ed all’interno del quale il giudice deve pur tenersi.

La Relazione al codice si rivela illuminante sul punto: il 2058 viene illustrato quale approntamento della “reintegrazione in forma specifica della situazione patrimoniale anteriore”, esprimendosi con ciò il volgimento funzionale del risarcimento in forma specifica negli stessi termini di quello per equivalente.

{Se allora dobbiamo concordare con Mario Libertini circa l’identica natura (obbligatoria) del risarcimento in forma specifica e di quello per equivalente e la pari ordinazione funzionale, dissentiamo dall’affermazione che il risarcimento in forma specifica possa formare oggetto di una condanna de futuro ed ipotetica riguardante danni non ancora verificatisi.

Tale tesi è contraddittoria rispetto all’idea stessa di risarcimento, da sempre rimedio contro il danno, non contro un’ipotesi di danno.

Cesare Salvi concorda sul punto.

René Savatier afferma che il giudice non può distruggere l’equilibrio tra condanna e pregiudizio, imponendo una prestazione superiore al danno}.

 

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