La cultura allo sbocciare del nuovo millennio appariva in grande crescita. Stavano sensibilmente crescendo le arti liberali le quali trovavano anche delle scuole nelle città in ripresa. Le arti liberali erano 7 e la prima descrizione di queste fu di Marziano Capella, un autore latino che aveva scritto una favola mitologica in cui comparivano 7 ancelle di Apollo in cui ognuna appunto significava un’arte. Queste arti avevano una forte rilevanza pratica. Capella le divideva in 2 gruppi: il Trivium comprendeva le 3 arti chiamate sermocinales in quanto riguardanti i metodi della corretta e ornata espressione del pensiero nel discorso: la grammatica (si insegnava leggendo i classici latini), la dialettica (offriva elementi essenziali della logica aristotelica) e la retorica (essa in quanto arte del persuadere era cara agli oratori e ai giuristi e si leggeva ovviamente molto cicerone). Il secondo gruppo era il Quadrivium che comprendeva le 4 arti qualificate reales in quanto riguardavano fenomeni obiettivi fondati sul numero e sulla quantità e non sul funzionamento dell’intelletto: l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astrologia. Questo era lo schema dell’istruzione superiore anche nell’alto Medioevo ed era un’istruzione che si impartiva però superficialmente: anche Carlo Magno che era ignorante si accorgeva però di ciò. Prese quindi Carlo seriamente questo problema curando la crescita culturale e circondandosi egli stesso di dotti, accadendo quello che gli storici chiamano “Rinascenza”carolingia alla sua corte sbocciando un Rinascimento “ante litteram” sospinto da una fiammata di entusiasmo per la latinità. Ci fu una fervente produzione libraria e furono copiati molti testi antichi che vennero così salvati. L’imperatore Lotario nell’825 vedendo che la dottrina italiana era in condizioni disastrose la definì estinta e promulgò un capitolare ecclesiastico olonese rivolto verso una riforma della istruzione superiore chiaramente affidata al clero che aveva il monopolio della cultura. Pavia diventò poi probabilmente un centro culturale agli inizi dell’XI secolo con una scuola di arti e una scuola professionale di diritto longobardo-franco (l’ordinamento del Regno d’Italia) rivolto alla formazione di giudici.

Studi della scuola di Pavia. Essa studiò gli editti Longobardi e il Capitolare italicum in una raccolta che il giurista Merkel chiamò Liber Papiensis la cui forma definitiva non fu raggiunta quando i maestri cominciarono a insegnarlo bensì alla fine del secolo XI. Successivamente fu pubblicato un nuovo testo, la lex Longobarda o Lombarda che fu disposto in forma sistematica ad imitazione del codice giustinianeo distribuendo cioè per materia in titoli e i titoli in 3 libri ed entrò in vigore dal XII secolo. Con l’evoluzione cambiò anche il modo di approccio dei maestri pavesi ai testi: il primo approccio fu di natura esclusivamente pratica corredando i testi con formule, ancora molto primitive, per facilitare l’attuazione delle norme nella pratica dei tribunali. Un’altra forma di evoluzione è poi certamente portata dalla citazione di leggi longobardo-franche e nella loro illustrazione con rade glosse di natura teorica in cui si leggono addirittura due citazioni romanistiche del Codice e dell’Epitome Iuliani. Il Cartolarium rappresenta uno dei precoci scritti della scuola pavese relativo ai notai e alla redazione degli atti privati e, sebbene alcuni lo datino nel IX sec, fornisce comunque un quadro aggrovigliato di leggi germaniche, mettendo legge salica che si contrappone alla romana ma viene ignorata quella longobarda.

Expositio ad Librum Papiensem. Esso è il capolavoro della scuola di Pavia databile intorno alla fine del XI. Esso si tratta di un analitico commento tecnico alla raccolta fino a quelle leggi di Enrico I con cui si chiude il Liber Papiensis usato nella didattica. Questo documento rileva che la scuola era in funzione da più generazioni in quanto vengono citati dall’autore docenti antiquissimi, antiqui (generazione precedente) e moderni (contemporanei all’autore). Quest’opera spiega poi perché la legge romana era ancora utilizzata in una scuola di nome franco-longobarda: il motivo è che la legge romana è la legge generale di tutti: primo squillo per il diritto comune. Tuttavia è bene dire che la funzione sussidiaria del diritto romano era nota a tutti da secoli: già Rotari diceva ciò.

Il diritto romano si cominciava a ristudiare? Questa domanda sorge pensando al fatto che nella scuola pavese il diritto romano sembrava esser utilizzato con molta disinvoltura. In particolare sembrerebbe esistere un apparato delle Istituzioni noto come Glossa Coloniensis, chiamato così perché ritrovato a Colonia ma in realtà imputabile alla Lombardia. Ciò testimonia il rinato interesse dei giuristi per quel manuale, dopo un Alto medioevo dove esso aveva goduto di una popolarità assolutamente modesta. Un altro famoso apparato sembra esser la Glossa di Casamari: essa proviene dal territorio romano e potrebbe nasconder qualche legame con gli ambienti settentrionali almeno giudicando la stessa definizione che ha del concetto di summa con la glossa di Colonia.

Altre scuole preirneriane? A testimonianza di ciò Odofredo dice che i libri giustinianei e l’antica scuola di Roma sarebbero stati costretti ad emigrare a Ravenna per le guerre che si stavano tenendo nelle Marche e dalla città romagnola sarebbero arrivati i libri a Bologna dove Irnerio li avrebbe poi studiati e costruito su di essi il proprio insegnamento. Anche Pier Damiani sembrava aver notato la presenza di sapienti ravennati pronti a invocare i testi giustinianei. Il viaggio detto da Odofredo sarebbe databile intorno al 1084 e il fatto che partissero da Roma farebbe pensare a una scuola nella capitale, cosa plausibile e si sarebbe addirittura potuto immaginare Irnerio intento a insegnare a Roma prima di andare a Bologna. La biografia di Irnerio scritta da Caccialupi direbbe proprio ciò, ma questo è un errore relativo alla prima edizione della stampa della biografia. La non esistenza di una scuola prebolognese a Roma è l’ipotesi accertata. Lo stesso Odofredo sostiene che il primo ad insegnare diritto romano non fu Irnerio ma Pepo di cui però non si ha alcuna fama. Egli viene citato anche dal maestro liberale Niger che cita Pepo come il protagonista di una nuova aurora del diritto romano declassando Irnerio al ruolo di subalterno. Si è ritenuto e per Cortese non a torto che Pepo andasse identificato come il doctor legis comparso nel placito di Marturi. Pepo è poi citato da un altro passo di Niger in cui il giurista sarebbe intervenuto durante un placito di Enrico V il quale, applicando il diritto germanico per risolvere una controversia, fu attaccato da Pepo che chiese e ottenne l’applicazione del diritto romano per il caso concreto (l’omicidio di un servo a cui per Enrico corrispondeva una sanzione pecuniaria) adducendo come motivazioni il fatto che il diritto naturale non fa distinzioni tra servi e liberi e quindi devono esser applicate le stesse pene e che la legge di natura prevede che chi uccide venga poi “ucciso”.

Idee della Chiesa sul diritto naturale. Essa chiaramente sosteneva che questo dovesse prevalere su quello civile, quindi il discorso di Pepo poggiava senza dubbio su presupposti ecclesiastici e di conseguenza questo primo grande maestro di diritto romano aveva mente e cuore di canonista. Sembra che questo Pepo l’anno seguente al discorso cioè il 1085 probabilmente fu nominato dal monarca vescovo di Bologna: ciò lo attesta la presenza di due vescovi a Bologna (uno fedele al papa, l’altro all’antipapa e ad Enrico IV) di cui quello di obbedienza imperiale si chiamava Pietro e questo nome come diminutivo di marca germanica è Pepo. Ciò è stato comunicato dal tardo storico umanista Ticci che per Cortese non è molto affidabile. Inoltre ci si chiede perchè non sia mai stato chiamato Pietro a questo punto, ma sempre Pepo. Comunque per quello che diceva poteva anche esser un prete.

Exceptiones legum Romanorum Petri. Questo è lo scritto in cui il pensiero di Pepo appare più evidente, dove c’è scritto il principio canonistico caro a Pepo del diritto naturale prevalente su quello civile e quindi del fatto che il giudice doveva tener conto del diritto naturale e di quello civile prevalendo il primo. Alcuni sostengono che quest’opera sia preirneriana, altri la vogliono realizzata chi in Italia (perchè ci son citazioni del Digesto) ch in Francia (oggi questa è prevalente). E’ presente anche un’ipotesi che vuole che alcuni pezzi di quest’opera provengano da fonti italiane, in quanto quest’opera sarebbe scomponibile in quanto formata dalla confluenza di opere che hanno goduto ciascuna di vita indipendente e circolazione autonoma.

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