Nel mondo analogico i segni distintivi tutelano il nome di un soggetto, permettendo di individuarlo con certezza e gli offrono protezione dal punto vista della concorrenza. Le stesse esigenze si pongono nel mondo dei byte con la disciplina dei nomi a dominio, segni distintivi su Internet, che pongono rilevanti problematiche giuridiche anche in considerazione della mancanza, nel mondo digitale, di due caratteristiche significative della tutela giuridica, ossia la materialità e la territorialità. 

Internet si configura come una rete di reti che permette ai diversi computer di collegarsi tra loro. Al fine di comunicare è necessario poter identificare e raggiungere il dispositivo, esattamente come per rintracciare un soggetto nella realtà fisica è necessario il suo indirizzo. Dal punto di vista tecnico, per identificare e poter contattare un dispositivo sulla rete esistono gli indirizzi IP: ad ogni computer connesso in rete risponderà un solo indirizzo IP, diverso da ogni altro. L’indirizzo IP è costituito da quattro byte rappresentati da una sequenza di quattro blocchi di numeri decimali, separati da punti che possono assumere un valore da 0 a 255.

La difficile memorizzazione degli indirizzi IP, l’esigenza di agevolare il sistema di ricerca e renderlo più semplice e rapido ha portato a elaborare, nei primi anni ’80, il Domain Name System (DNS) che permette di tradurre l’indirizzo numerico in nomi e parole scelti dai richiedenti: il domain name o nome a dominio. In sostanza il nome a dominio indica la denominazione di un “luogo digitale”, è l’indirizzo alfanumerico di identificazione di un dispositivo collegato ad Internet, cui corrisponde, di norma, uno specifico sito web.

L’organizzazione degli indirizzi IP e dei relativi nomi a dominio è gerarchica e si legge da destra verso sinistra.

  1. Il primo livello, detto Top Level Domain indica la nazionalità del dominio o la categoria di appartenenza: è il caso dei suffissi nazionali o geografici come .it per l’Italia, .uk nel Regno Unito oppure dei suffissi “generici” per categoria quali .com per l’attività commerciale o .gov per gli enti statali
  2. Il secondo livello, detto Second Level Domain è liberamente scelto dall’utente. È un nome unico ed esclusivo in tutta la rete Internet e può indicare un soggetto, un prodotto, un servizio, un nome di fantasia
  3. Il terzo livello, ed eventuali livelli inferiori se presenti, indicano sottodomini ossia parti di un dominio già ampio, come dislocazioni geografiche, divisioni di organizzazioni o dipartimenti
  4. La parte finale si riferisce al protocollo di trasmissione al servizio utilizzato per raggiunger il nome a dominio nella rete.

L’assegnazione dei nomi a dominio a livello internazionale, la funzione di sovrintende alla loro gestione e l’identificazione di criteri uniformi per la risoluzione della relative controversie sono demandate oggi a ICANN (Internet Corporation of Assigned Names and Numbers) che per svolgere la sue funzioni delega i compiti ad autori territoriali, le Registration Authorities: i generi top level domain (gTLD) sono attribuiti da organismi accreditati da ICANN, gli Accredited Registrars.

In Italia la Registration Authority è “Registro del ccTLD.it” o “Registro.it” che fa parte dell’Istituto per l’Informatica e la Telematica del Centro Nazionale delle Ricerche.

Le regole tecniche di naming sono contenute nel regolamento della Registration Authority, di natura pattizia. I principi fondamentali, oltre alla necessità da parte di qualunque soggetto di registrare il nome a dominio per poterlo utilizzare su Internet, sono i seguenti: il principio di unicità del nome a dominio e l’assegnazione in ordine di priorità cronologica a chi per primo ne ha fatto richiesta.

La registrazione dura un anno ed è automaticamente rinnovata.

È vietato l’utilizzo dei cosiddetti nomi riservati, assegnati o assegnabili solo a soggetti predeterminati, come i nomi a dominio corrispondenti all’Italia e agli enti territoriali.

In origine i nomi a dominio possedevano una funzione sostanzialmente tecnica ma la diffusione della rete ha evidenziato una vera e propria funzione distintiva dei nomi a dominio: il valore distintivo deriva dalla riconducibilità del nome a dominio a un’attività, un prodotto, un servizio, un nome.

La funzione distintiva ha provocato la conseguente forte attenzione del diritto ai nomi a dominio, che si è tradotta nella necessità di fornirli di una qualificazione giuridica, risolvere le problematiche legate alla specificità dello strumento e indicare come sanare le controversie. Già prima della previsione normativa, la dottrina e la giurisprudenza avevano cominciato a qualificarli quali segni distintivi nella consapevolezza del pregiudizio recato nel momento in cui la clientela sia attratta da uno specifico domain name nella convinzione dell’appartenenza dello stesso a un determinato soggetto.

L’interesse ad ottenere un nome a dominio coincidente con il proprio segno distintivo è bene giuridicamente tutelabile, in quanto alla valutabilità economica si aggiunge l’idoneità a soddisfare interessi meritevoli di tutela: in specifico la funzione di identificazione e l’esigenza di evitare la confusione a tutela del pubblico, che può sfociare nella concorrenza sleale.

Oggi la normativa, in specifico il Codice della proprietà industriale, il decreto legislativo 30/2005, tutela il nome a dominio come segno distintivo, lo equipara agli altri   e applica il principio di unitarietà dei segni distintivi, che rende non più fondamentale distinguere l’appartenete a una tipologia piuttosto che un’altra.

La normativa, pertanto, pone come aspetti determinanti da esaminare per la risoluzione di eventuali controversie l’identità o affinità ad altrui marchio, che generi confusione nel pubblico a causa di un’associazione tra i due segni e la rinomanza anche in assenza di affinità, dal momento che può causare un indebito vantaggio.

La stessa normativa prevede l’ipotesi inversa, ossia che non possano costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che siano indettici o simili a segni distintivi già noti tra i quali il nome a dominio usato nell’attività economica, se possa determinarsi il rischio di confusione per il pubblico.

  1. In caso di attività uguale o affine e, quindi, medesimo settore merceologico, l’ordinamento mira a evitarne la coesistenza per scongiurare il rischio di confusione ed evitare la concorrenza sleale
  2. In caso di marchio dotato di rilevanza vi è una tutela ultramerceologica dovuta all’indebito vantaggio di unire il proprio nome a quello dotato di rinomanza, sfruttandone la notorietà, e di arrecare pregiudizio al titolare del marchio rinomato sviando la clientela e danneggiando l’immagine. Anche la mera registrazione priva di utilizzo può danneggiare il titolare, che è impedito in modo assoluto dalla possibilità di usare quel nome a dominio: si parla di passive domain holding

Nel caso in cui i nomi a dominio siano utilizzati in ambito imprenditoriale o economico, sono soggetti alla disciplina della proprietà industriale e ne seguono le norme, alle quali si sommano quelle in materia di concorrenza sleale laddove ne ricorrano i requisiti.

Tra le condotte illecite che riguardano i nomi a dominio va richiamato il “cybersquatting o domain grabbing” che consiste nella pratica di accaparrare nomi a dominio corrispondenti a marchi o nomi altrui non ancora registrati, solitamente noti, con due finalità tipiche: poterli rivendere a maggior costo a chi ne ha interesse o porre in essere atti di concorrenza sleale, traendo in tal caso un indebito vantaggio dalla confusione fra segni distintivi e dallo sviamento della clientela.

Una forma evoluta di cybersquatting è il typosquatting che consiste nel registrate nomi a dominio molto simboli a marchi o nomi altrui sfruttando gli errori di digitazione degli utenti e il reindirizzamento dai motori di ricerca con correttore automatico. Ulteriore fattispecie consolidata nella prassi è il pornosquatting che consiste nell’utilizzo del nome a dominio altrui al fine di attirare e reindirizzare gli utenti su siti pornografici del tutto estranei. Altra condotte illecite è quella che impiega nei metatag di un sito il marchio di   un altro soggetto, al fine si sfruttarne in modo parassitario i vantaggi.

I rimedi previsti sono eterogenei e possono condurre a risultati diversi: oltre alla composizione pacifica frutto di accorso a seguito di trattativa, è possibile il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria oppure alla procedure arbitrale.

Altrimenti è possibile affidarsi alla procedura di rassegnazione per i nomi a dominio nel ccTLD.it che ha natura meramente amministrativa e, di conseguenza, non preclude la possibilità di ricorso successivo alla magistratura o all’arbitrato.

Al riguardo, l’articolo 118 comma 6 del decreto legislativo 30/2005 prevede che la registrazione di nome a dominio aziendale concessa in violazione dell’articolo 22 o richiesta in malafede, può essere, du domanda dell’avente diritto, revocata oppure a lui trasferita da parte dell’autorità di registrazione.

Inoltre, il decreto legislativo 131/2010 prevede la possibilità per l’autorità giudiziaria di disporre, in via cautelare, oltre all’inibitoria dell’uso nell’attività economica del nome a dominio illegittimamente registrato, il suo trasferimento provvisorio che può essere subordinato alla presentazione di idonea cauzione da parte del beneficiario.