Altra caratteristica dell’ordinamento è la completezza, per essa si intende la proprietà per cui un ordinamento giuridico ha una norma per regolare qualsiasi caso. Poiché la mancanza di una norma si chiama “lacuna”, completezza significa mancanza di lacune. Volendo specificare, l’incompletezza consiste nel fatto che il sistema non comprende né la norma che proibisce un certo comportamento, né quella che lo permette; è in questo caso che si parla di lacune. Da questa definizione si capisce il nesso che c’è tra coerenza e completezza: La coerenza significa esclusione di ogni situazione in cui non appartengono al sistema entrambe le norme che si contraddicono; la completezza significa esclusione di ogni situazione in cui non appartengono al sistema nessuna delle due norme che si contraddicono. Il nesso tra i due problemi è stato trascurato, ma non mancano nella migliore letteratura giuridica cenni di necessità di una loro trattazione comune.

Carnelutti, nella sua Teoria generale del diritto, tratta congiuntamente i due problemi e parla di incompiutezza per esuberanza nel caso di antinomia, e di incompiutezza per deficienza in caso di lacune. Rispetto alla coerenza, il problema del teorico è se e in qual misura un ordinamento giuridico sia coerente e ciò è un’esigenza ma non una necessità perché anche con antinomie il sistema continua a esistere; rispetto alla completezza il problema è se e in quale misura un ordinamento sia completo e la completezza è una necessità per il buon funzionamento del sistema. In conclusione la completezza è una condizione necessaria per quegli ordinamenti in cui valgono due regole: il giudice è tenuto a giudicare tutte le controversie che gli si presentano; è tenuto a giudicarle in base ad una norma presente nel sistema.

Se una delle due regole viene meno la completezza cessa di essere considerata un requisito dell’ordinamento. In un ordinamento in cui mancasse la prima regola, il giudice potrebbe respingere il caso che gli si presenta, ritenendolo giuridicamente irrilevante (per alcuni il diritto internazionale è un ordinamento di questo tipo). In un ordinamento in cui mancasse la seconda regola, il giudice non sarebbe tenuto a giudicare il caso tramite una norma del sistema; è il caso dell’ordinamento che autorizza il giudice, in mancanza di una disposizione di legge, a giudicare secondo equità (ord. Inglese, svizzero).

Il DOGMA della completezza nasce probabilmente nella tradizione romanistica medioevale, quando il diritto romano è considerato il diritto per eccellenza perché esso contiene le regole con le quali il buon interprete è in grado di risolvere tutti i problemi giuridici. Nei tempi moderni il dogma della completezza è diventato parte integrante della concezione statualistica del diritto, cioè di quella concezione che fa della produzione giuridica un monopolio dello stato. Onnipotente come lo stato di cui era l’emanazione, il diritto doveva regolare ogni possibile caso.

Ammettere che tale diritto non era completo, voleva dire introdurre un diritto concorrente, rompere il monopolio della produzione giuridica statuale. Un’espressione di questa volontà di completezza, sono state le grandi codificazioni, ed è proprio all’interno di esse che è stato pronunciato il verdetto che il giudice deve giudicare restando sempre dentro il sistema già dato. Ad ogni codificazione si è sviluppata tra i giuristi e i giudici la tendenza ad attenersi scrupolosamente ai codici, quell’atteggiamento chiamato feticismo della legge.

In Francia la scuola giuridica viene di solito chiamata scuola dell’esegesi e il suo carattere particolare era l’ammirazione incondizionata per l’opera del legislatore e la credenza che il codice bastasse completamente a sé stesso, non avesse lacune. Quando cominciò la reazione al feticismo legislativo, uno dei maggiori rappresentanti fu il giurista tedesco Ehrlich che affermò che il ragionamento del giurista tradizionale era fondato su tre presupposti: la proposizione maggiore di ogni ragionamento giuridico deve essere una norma giuridica; questa norma deve essere sempre del sistema; tutte queste norme devono formare nel loro complesso un’unità.

Il libro di Ehrlich è una delle espressioni più significative della rivolta contro il monopolio statualistico che è nota soprattutto col nome di scuola del diritto libero; il principale bersaglio di tale tendenza è il dogma della completezza, la battaglia contro le scuole dell’esegesi, è una battaglia per le lacune. I commentatori del diritto costituito ritengono che il diritto non avesse lacune e che il compito dell’interprete fosse rendere esplicito ciò che era già implicito nella mente del legislatore. I sostenitori della nuova scuola affermavano che il diritto costitutivo fosse pieno di lacune e per riempirle bisognava affidarsi al potere creativo del giudice.

Le ragioni per cui si sviluppa tale movimento contro il dogma della completezza, per Bobbio sono principalmente due: anzitutto via via che la codificazione invecchiava se ne scoprivano le insufficienze: ciò che in primo tempo è oggetto di ammirazione diviene poi oggetto di analisi critica; in secondo luogo bisogna considerare che nella seconda metà del secolo scorso avvenne, per opera della cosiddetta rivoluzione industriale, una profonda e rapida trasformazione della società che fece apparire le prime codificazioni, rispecchianti una società ancora agricola, come insufficienti e inadeguate.

Questo sempre più rapido sfasamento tra diritto costituito e realtà sociale fu accompagnato dal particolare sviluppo delle scienza sociali le quali, pur nelle diverse correnti, ebbero una caratteristica comune: la polemica contro lo stato e la scoperta della società al di sotto dello stato; lo stato si ergeva sulla società e tendeva ad assorbirla ma la lotta delle classi e la formazione spontanea di nuovi raggruppamenti sociali (sindacati, partiti), mettevano in evidenza una vita sottostante e contrastante lo stato. La sociologia nel momento in cui prese consapevolezza delle correnti sotterranee che animano la vita sociale, contribuì alla distruzione del mito dello stato.

Nell’ambito più vasto della sociologia si formò una corrente giuridica di cui Ehrlich fu uno dei rappresentanti più autorevoli: il programma di tale sociologia fu all’inizio quello di mostrare che il diritto è un fenomeno sociale e pertanto la pretesa dei giuristi di fare del diritto un prodotto dello stato era infondata. I rapporti tra la scuola del diritto libero e sociologia giuridica sono molto stretti: sono due facce della stessa medaglia. Se il diritto è un fenomeno sociale, il giudice e il giurista dallo studio della società dovevano ricavare le regole giuridiche adeguate ai nuovi bisogni e solo il diritto libero era in grado di colmare le lacune.

Il diritto libero era, agli occhi dei giuristi una nuova incarnazione del diritto naturale e concedergli cittadinanza voleva dire rompere il principio di legalità e aprire le porte al caos e all’anarchia. La completezza per loro non era un mito ma una esigenza di giustizia. Era un’utile difesa di uno dei valori supremi, cui deve servire l’ordine giuridico, la certezza. Per difendere il dogma della completezza bisognava però dimostrare che essa era un carattere costitutivo dell’ordinamento giuridico e che se c’era una teoria erronea era quella che sosteneva la presenza di lacune.

Il primo argomento portato avanti dai positivisti fu quello dello SPAZIO GIURIDICO VUOTO: ogni norma è una limitazione alla libera attività umana e al di fuori della sfera regolata dal diritto, l’uomo è libero di fare ciò che vuole. L’attività dell’uomo è quindi divisa in uno spazio giuridico pieno in cui è vincolata dalle norme, e uno spazio giuridico vuoto in cui è libera. Trasportando quest’alternativa sul problema delle lacune si vede che un caso o è regolato dal diritto e quindi e giuridico, oppure non lo è e quindi appartiene alla sfera dell’attività libera dell’uomo che è la sfera giuridicamente irrilevante.

Per le lacune non c’è spazio perché fin dove il diritto giunge con le sue norme le lacune non ci sono; dove non giunge c’è lo spazio giuridico vuoto e quindi l’attività indifferente al diritto. Il punto debole di questa teoria per Bobbio è che si fonda su un concetto discutibile che è lo spazio giuridico vuoto e sembra che l’affermazione di questo nasca dalla falsa identificazione del giuridico con l’obbligatorio; l’errore sta nel fatto che per tale teoria, ciò che non rientra nell’obbligatorio è giuridicamente irrilevante. Bobbio afferma più volte che le modalità normative sono tre: l’obbligatorio, il permesso e il proibito.

La tesi dello spazio giuridico vuoto escute il permesso dalle modalità giuridiche. Ciò non è possibile perché la sfera del permesso è sempre collegata con una sfera dell’obbligatorio: ciò vuol dire che la sfera del permesso giuridico può sempre essere considerata dal punto di vista dell’obbligo (l’obbligo altrui di non impedire l’esercizio dell’azione lecita). Il fatto che la libertà non sia protetta no fa diventare il fatto giuridicamente irrilevante, perché nel momento stesso in cui la libertà di agire dell’uno non è protetta, è protetta la libertà dell’altro di esercitare la forza, e in quanto protetta essa è giuridicamente rilevante invece dall’altra. Non viene meno la rilevanza, semplicemente cambia il rapporto tra diritto e dovere.

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