Premessa
Nel libro II è raggruppato un complesso di regole valide per l’intero procedimento e dedicate agli atti. La creazione di una normativa generale non impedisce possano essere create delle regole speciali in rapporto alla progressione del rito.
Viene definito fatto giuridico l’accadimento consistente tanto in un fenomeno naturale quanto in un comportamento umano con l’attitudine a produrre effetti giuridici.
Secondo la dottrina prevalente, l’atto giuridico si distingue dal fatto a causa di una componente psichica minima: la volontarietà.
Dal punto di vista della condotta, i comportamenti umani si risolvono in dichiarazioni – di volontà o di scienza – esternate verbalmente, per iscritto o anche in maniera
gestuale, oppure in operazioni, quali gli esperimenti giudiziari e le ispezioni.
Gli atti processuali penali sono quelli che sono posti in essere dai soggetti del procedimento. Sul piano oggettivo, due sono i requisiti essenziali dell’atto processuale penale: la sua attitudine a produrre effetti giuridici e di rilevanza processuale penale e il suo realizzarsi nel contesto del procedimento penale. Rilevanti esigenze sistematiche inducono a far coincidere il primo atto del procedimento con quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato da parte del pm o della polizia giudiziaria.
La lingua degli atti
Di regola, gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana, che è la lingua ufficiale, ma non si prevedono sanzioni amministrative per chi, pur sapendo esprimersi in tale lingua, ne usi un’altra. L’art. 109 comma 2° supera ogni disegno nazionalistico perché eleva, seppure in un ambito circoscritto al «territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta», altre lingue al rango di lingue del procedimento, accanto e alla pari di quella italiana.
L’operazione assicura al cittadino appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta il diritto di impiegare nei rapporti con l’autorità giudiziaria la propria madrelingua, a prescindere dal suo livello di conoscenza della lingua italiana. Ciò vale – si badi – non solo per l’imputato e le altre parti private, ma, pure, per i testimoni, i periti, i consulenti tecnici e quanti altri vengono in contatto con il procedimento penale.
Tuttavia, per i primi, stante l’intensità della tutela approntata, il diritto alla difesa personale (dal punto di vista delle capacità di comprendere e di comunicare della parte) risulta assorbito in quello dell’uso della lingua minoritaria. Al di là della sfera di operatività dell’art. 109 comma 2°, per il cittadino italiano alloglotto che non conosca la lingua italiana operano le regole dettate dalla normativa sulle traduzioni (infra). L’uso di una lingua diversa da quella italiana è subordinato alla sussistenza di una serie. di requisiti.
Il primo è che si tratti di una lingua di cui una legge, (anche regionale) «riconosce» la qualità di lingua minoritaria. Il secondo requisito circoscrive la tutela ai soli procedimenti che si svolgano davanti ad un’autorità avente competenza di primo o secondo grado sul territorio dove, ancorché in parte, è insediata la minoranza linguistica. Il terzo requisito si risolve nell’onere del soggetto alloglotto di richiedere sempre l’uso della lingua minoritaria, ma l’opzione, espressa in forma scritta od orale, è revocabile.
La tipologia delle nullità conseguenti all’inosservanza delle regole così poste (art. 109 comma 3°) va esaminata separatamente per ciascuno dei due primi commi. Quanto al 1° comma, non v’è motivo per discostarsi dall’orientamento giurisprudenziale affermatosi in passato: in ogni caso si tratterà di una nullità relativa. Il medesimo assunto sembra non valere per le nullità scaturenti dalla violazione del 2° comma: se essa riguarda una parte privata, è messa in gioco l’inosservanza di una disposizione relativa al suo intervento, sicché l’assorbimento della tutela linguistica in quella del diritto di difesa comporta, di regola, l’inquadramento tra le nullità a regime intermedio (art. 180). Ma non è da escludere il verificarsi di una nullità assoluta allorché si tratti di citazione dell’imputato (art. 179 comma 1°).
L’autorità giudiziaria, nell’indicare il difensore d’ufficio o designarne il sostituto ai sensi dell’art,97 comma 4°, deve tener conto dell’appartenenza etnica o linguistica dell’imputato. Essendo la lingua nient’altro che uno strumento di comunicazione, accanto all’art. 109 può situarsi l’art. 119, relativo alla partecipazione del sordo, del muto o del sordomuto agli atti del procedimento.
Tutte le volte in cui un soggetto in tali condizioni voglia o debba fare dichiarazioni – espressione volutamente lata così da ricomprendere anche atti non qualificabili come interrogatori od esami – sono previste particolari modalità di comunicazione che si avvalgono della parola o dello scritto. In ipotesi del genere, anche indipendentemente dalla circostanza che la persona in discorso non sappia leggere o scrivere, l’autorità procedente provvede a nominargli uno o più interpreti «scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui».
A favore del sordo, del muto o del sordomuto imputati, stanti le regole generali fissate dall’art. 144, non potrebbe prestare l’ufficio di interprete il prossimo congiunto, trattandosi di soggetto che usufruisce della facoltà di astenersi: proprio al fine di evitare che un tal genere di imputato non possa giovarsi dell’ausilio di chi, presumibilmente, è persona abituata a trattare con lui, l’art. 144 lett. d introduce un’apposita deroga al divieto.