Cominciamo a considerare l’atto amministrativo dal punto di vista della competenza e cioè dell’organo agente. Da questo angolo visuale gli atti si distinguono in semplici e collegiali, collettivi e complessi.

Semplici o collegiali sono gli atti a seconda che vengano emanati da un organo individuale o da un organo collegiale: in entrambi i casi essi sono però espressione della volizione di un solo organo.

Si dicono invece atti collettivi quelli che risultano da una somma di manifestazioni di volontà di più organi.

In tal caso però l’atto è unico solo in apparenza: in realtà si è in presenza di tanti atti quanti sono gli organi che si sono riuniti e ognuno di essi conserva la propria individualità sostanziale.

Si hanno atti collettivi quando gli organi di uno stesso ente perseguono un identico fine, danno vita ad un atto unico invece di emanare ognuno un proprio atto avente uguale contenuto, oggetto e causa giuridica di quello degli altri organi.

Sono invece atti complessi quelli nei quali non si ha una semplice somma ma una collaborazione di più organi e talvolta anche di più soggetti.

In questi casi per emanare l’atto non è sufficiente la volizione di un solo organo o soggetto ma occorre il concorso della volizione di più organi o soggetti.

Solo il loro integrarsi reciproco è idoneo a dar vita all’atto e la mancanza anche di una sola volizione non lascia intatto quell’atto, ma lo fa venir meno perché ogni volizione è necessaria come componente dell’unica manifestazione di scienza, di desiderio o di giudizio se si tratta di un mero atto.

I provvedimenti complessi non hanno la stessa struttura dei contratti: infatti essi sono sempre atti unilaterali anche se è necessario il concorso di più organi dello stesso soggetto o di più soggetti, mentre i contratti sono atti bilaterali.

Perciò anche le volizioni dei soggetti hanno nei due tipi di atti diversa direzione.

Nei contratti infatti i soggetti contraenti perseguono fini diversi onde le loro volizioni si incontrano dando luogo ad una fusione; negli atti complessi perseguono lo stesso fine onde le loro volizioni non si incontrano ma si accompagnano per dar vita all’atto.

Oltre che dal punto di vista della competenza, gli atti amministrativi possono essere qualificati dal punto di vista della funzione. Spesso il soggetto agente, nell’applicare un potere ad una realtà concreta deve seguire determinate forme poste a garanzia della retta trasformazione del potere in atto. In molti casi il soggetto agente deve preliminarmente compiere o far compiere un accertamento della realtà (sopraluoghi, rilievi); egli spesso deve chiedere pareri agli organi consultivi sull’opportunità di provvedere; deve ottenere l’autorizzazione dell’organo di controllo.

Nella legislazione più recente si è data grande estensione al procedimento non solo precisandone i vari elementi ma anche ammettendo la partecipazione degli interessanti all’interno stesso dell’esercizio della funzione consentendo loro la conoscenza dei vari atti interni e la possibilità dei loro apporti collaborativi. Si è anche previsto che la conclusione del procedimento possa avvenire mediante la inserzione nell’atto volitivo dell’amministrazione procedente di un atto volitivo del privato partecipante.

Quando l’atto terminale del procedimento è il prodotto del concorso delle due volontà, l’atto stesso assume il nome di accordo e costituisce una forma nuova che sembra possibile avvicinare alla figura del contratto tipico del diritto privato.

Non si tratta tuttavia di un vero e proprio contratto poiché la natura dell’accordo è pur sempre pubblicistica e costituisce esplicazione del potere di impero spettante all’amministrazione.

Tutti questi momenti e questi atti sono documentati e il loro susseguirsi da luogo al procedere del provvedimento verso la sua formazione; fino a che l’organo e talora anche il soggetto agente non ha però manifestato la sua volizione col provvedimento o col mero atto, questo non è perfetto: un atto può essere qualificato come perfetto solo nel momento in cui si è perfezionato il procedimento necessario per la sua formazione e pertanto la perfezione è la qualificazione dell’atto dal punto di vista della funzione. Tale qualificazione è ammissibile anche per i meri atti benché il procedimento di formazione dei provvedimenti di amministrazione sia solito più complesso di quello dei meri atti.

Dobbiamo infine qualificare l’atto dal punto di vista della causa.

Abbiamo detto che i soggetti agenti nell’emanare un provvedimento di amministrazione non fanno se non rendere reale un potere astrattamente statuito dalla norma:e che ciò si può fare quando esista un rapporto tra le circostanze astrattamente previste e la norma che le prevede: rapporto che esprime il concetto di causa. Non sempre però la norma definisce tali circostanze. Non sempre cioè la fattispecie astratta della norma è completa ma spesso la norma lascia al soggetto agente di completarla in alcuni elementi; in genere lasciandogli una certa libertà di decidere se alcune circostanze reali siano dello stesso tipo di quelle costituenti la fattispecie della norma o lasciandogli una certa libertà di adottare il provvedimenti concreto più idoneo a disciplinare la specie secondo le circostanze reali.

Questa libertà lasciata al soggetto agente dalle norme amministrative si chiama DISCREZIONALITA’ e discrezionali si chiamano perciò i provvedimenti di amministrazione dei quali la corrispondenza alla norma giuridica non è rigidamente predisposta ma in almeno un elemento dipende da una valutazione concreta del soggetto agente.

Va tuttavia rilevato che seppure nella prassi e nella dottrina si parli di potere discrezionale in realtà l’ordinamento amministrativo non conosce norme in bianco.

L’amministrazione agisce sempre in attuazione dei precetti e perciò non ha la capacità di porne di nuovi. La sfera discrezionale appartiene solo al momento interpretativo della norma, da cui estrae tutti i possibili contenuti precettivi e ciò in presenza di norme a carattere sintetico di cui l’amministrazione svela la possibile estensione. Non diversamente da quanto avviene per l’analogia che pure appartiene al campo dell’ermeneutica.

In questi casi si parla di discrezionalità pura, ma di discrezionalità si parla anche quando si è in presenza della valutazione e interpretazione del modo di essere degli elementi della fattispecie reale. Si è sempre in presenza di attività interpretative solo che anziché utilizzare i principi giuridici che servono per l’ermeneutica della norma si tratta qui di utilizzare i principi delle conoscenze tecniche che consentono la rappresentazione della fattispecie nella sua realtà.

Tale attività discrezionale non è perciò mai priva di limiti. Così un limite fondamentale alla discrezionalità pura è dato da ciò che la PA deve sempre perseguire l’interesse pubblico e l’interesse funzionale espresso dalla causa giuridica dell’atto.

Anche rispetto ai meri atti si può parlare di una discrezionalità: ma essa è presente solo in quegli atti nei quali l’interesse funzionale (causa giuridica) è immediatamente individuato in quanto questa fornisce un modello dell’atto pur senza darne una determinazione precisa. Dove invece l’atto è esercizio di una facoltà immediatamente sorgente da una posizione giuridica costituita con un provvedimento, e quindi solo mediatamente è protetta dalla norma giuridica, è dubbio che si possa ancora parlare di discrezionalità.

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