Si intende la competenza come quella frazione della giurisdizione che concretamente spetta a un certo giudice rispetto a una certa causa. E’ chiaro allora che la competenza si presenta come un requisito dell’attitudine del processo a pervenire alla pronuncia sul merito: un presupposto processuale per l’emanazione del provvedimento finale. Ora, i problemi che si pongono ai legislatori quando disciplinano la competenza, conseguono al fatto che tale disciplina si risolve nel ripartire la giurisdizione tra più uffici, sicchè questa disciplina deve adeguarsi ai modi in base a cui si articola la pluralità degli uffici giudiziari. Nel nostro ordinamento esistono da un lato diversi tipi di giudici “in linea verticale” (ossia giudici con caratteristiche strutturali diverse, sia per composizione (es. giudici uni personali: giudice di pace e Tribunale e giudici collegiali: Tribunale, Corte d’Appello, Cassazione) sia per il loro funzionamento; d’altro lato invece esistono tanti giudici dello stesso tipo distribuiti “orizzontalmente” sul territorio nazionale (tranne Cassazione, che sta solo a Roma). La ripartizione in questo caso si effettua in base alla dislocazione dei giudici nel territorio: un ufficio di pace in ogni mandamento preesistente al mutamento delle circoscrizioni territoriali delle preture, un tribunale per ogni circondario, una Corte d’Appello per ogni distretto, Cassazione a Roma. Quindi la distribuzione delle competenze si concreta nella duplice scelta secondo la linea verticale e secondo quella orizzontale. Per quanto riguarda la competenza, essa come per la giurisdizione vede la necessarietà per determinarla di guardare alla legge vigente e allo stato di fatto al momento della proposizione della domanda ex 5 C.P.C..

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