La disciplina della prescrizione in materia di diritti dei lavoratori, salvo eccezioni, è ancora oggi quella generale dettata dal Codice civile, sulla quale, però, ha inciso notevolmente la giurisprudenza della Corte Costituzionale. Anzitutto, anche i diritti dei lavoratori si estinguono per prescrizione quando essi non vengono esercitati “per il tempo determinato dalla legge”. In particolare, il Codice civile prevede un termine “breve” di 5 anni per la prescrizione di “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, nonché delle “indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”.
Dunque, i diritti di credito del lavoratore si prescrivono in 5 anni, sia ove abbiano ad oggetto le retribuzioni che costituiscono il corrispettivo diretto delle prestazioni tempo per tempo rese, sia ove abbiano ad oggetto le forme di retribuzione differita erogate annualmente (quali le mensilità aggiuntive), sia ove abbiano ad oggetto il trattamento di fine rapporto o la indennità di mancato preavviso.
La prescrizione ordinaria, che è invece decennale, trova applicazione in relazione ai diritti del lavoratore aventi ad oggetto il risarcimento del danno o le retribuzioni erogate con periodicità superiore all’anno e non legate alla cessazione del rapporto di lavoro, ovvero, ancora, in relazione a diritti di contenuto non patrimoniale (quale, ad esempio, il diritto al riconoscimento della qualifica superiore in corrispondenza delle mansioni effettivamente svolte).
Per le sole “retribuzioni” è prevista anche una prescrizione “presuntiva”, di un anno o tre anni, a seconda che si tratti di retribuzioni corrisposte, rispettivamente, a periodi non superiori al mese o a periodi superiori al mese. Il decorso di tale termine abbreviato, però, non determina l’estinzione del diritto, ma soltanto la presunzione che il diritto sia stato soddisfatto. Peraltro, è espressamente ammessa la prova contraria (ossia la prova del mancato adempimento dell’obbligazione di credito), sia pure limitata alla confessione e al giuramento decisorio, cosicché la presunzione legale è soltanto relativa e non assoluta.
Di conseguenza, è raro che il datore di lavoro convenuto in giudizio eccepisca la prescrizione presuntiva quando in realtà non abbia adempiuto. Anzitutto, ove gli venga deferito il giuramento e dichiari il falso, può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’articolo 371 del Codice Penale. Inoltre, l’eccezione relativa alla prescrizione presuntiva presuppone ammessa l’esistenza del credito (che si dichiara di aver soddisfatto), cosicché il datore di lavoro si esporrebbe automaticamente alle conseguenze amministrative, fiscali e previdenziali derivanti dalla mancata osservanza degli obblighi che la legge collega alla corresponsione di qualsiasi retribuzione.
Pur lasciando inalterati i termini di compimento della prescrizione, la Corte Costituzionale ha modificato l’impianto codicistico, per tenere conto dei sopravvenuti principi costituzionali di tutela del lavoro, prevedendo una disciplina speciale della decorrenza di tali termini. Infatti, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno stesso in cui il diritto può essere fatto valere. La Corte Costituzionale ha, però, ritenuto che gli articoli 2948, n.4, 2955, n.2, e 2956, numero 1, del Codice Civile, nella parte “in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”, contrastano con l’articolo 36 della Costituzione.
Più precisamente, il giudice delle leggi ha ritenuto che la prescrizione possa configurare, indirettamente, un atto dispositivo assimilabile alla rinuncia, in quanto il lavoratore “può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore di licenziamento”. Pertanto, la prescrizione dei diritti retributivi inizia a decorrere non dal giorno in cui il diritto è maturato, bensì dal giorno della cessazione del rapporto di lavoro, poiché è questo il momento in cui viene meno il timore che l’esercizio del diritto comporti la ritorsione del licenziamento.
Tale differimento non si estende a tutti i rapporti di pubblico impiego per i quali vige “una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto” od “offre garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso”. Tra il 1966 e il 1970, è stata introdotta anche nel rapporto di lavoro privato una disciplina legale diretta a limitare il potere di licenziamento e ad assicurare la tutela della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo. Le innovazioni legislative hanno indotto la Corte Costituzionale a precisare il proprio precedente orientamento.
È stato, così, affermato che anche per i lavoratori privati ai quali si applica quella disciplina e, in particolare, la tutela della reintegrazione, la prescrizione decorre in costanza di rapporto di lavoro, non essendo quei lavoratori sottoposti al timore di licenziamento che impedisce l’immediato esercizio del diritto. è, però, da tenere presente che le tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo sono state, recentemente, modificate dal legislatore, il quale ha ristretto notevolmente le ipotesi in cui il giudice può disporre la reintegrazione del lavoratore.
Si pone, di conseguenza, il problema di sapere se la protezione offerta dalla nuova disciplina sia ancora idonea ad assicurare quel grado di “stabilità” che la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario per escludere il timore di licenziamento e consentire l’esercizio dei diritti retributivi in corso di rapporto. A voler esaminare tale problema nella prospettiva del contesto socio-giuridico nel quale si inseriva la giurisprudenza costituzionale descritta, la soluzione appare scontata.
La motivazione della sentenza 174 del 1972, infatti, affermava esplicitamente che “una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica fatta illegittimamente cessare”. In realtà, i termini del problema sono più complessi poiché è oggi necessario tenere conto dei profondi mutamenti da allora intervenuti nella società, nel lavoro e nel diritto.
La situazione di debolezza economica, e psicologica, del lavoratore non è la stessa, sia per il maggior radicamento del sindacato e dell’azione di autotutela che esercita, sia per il ruolo più incisivo esercitato dall’attività di vigilanza amministrativa, sia per la rafforzata tutela contro le discriminazioni e la specifica protezione che continua ad essere prevista nel caso di licenziamento intimato per ritorsione. Del resto, l’ordinamento ha ampliato il potere del lavoratore di disporre dei propri diritti anche in materia di rinunce e transazioni, oltreché con la nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato.