Il lavoratore può scegliere di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, una indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La richiesta di tale indennità deve essere effettuata entro 3o giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza che ha ordinato la reintegrazione, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

La facoltà di scegliere tra la ricostituzione del rapporto di lavoro e l’indennità sostitutiva rafforza la posizione del lavoratore, che può così conseguire un vantaggio economico dall’ordine di reintegrazione anche nell’ipotesi in cui egli non intenda riprendere effettivamente servizio. Recependo il più recente orientamento giurisprudenziale, inoltre, il legislatore precisa che la “richiesta” del lavoratore relativa alla indennità sostitutiva determina la risoluzione del rapporto di lavoro, essendo irrilevante l’eventuale ritardo nel relativo pagamento da parte del datore di lavoro.

La riforma dell’ordine di reintegrazione comporta l’obbligo di restituzione dell’indennità sostituiva, allo stesso modo delle somme corrisposte al lavoratore a titolo di risarcimento del danno.

Per i datori di lavoro di dimensioni maggiori, la legge prevede, oggi, la tutela reale attenuata e la tutela risarcitoria, a seconda della gravità del difetto di giustificazione.

 La tutela reale attenuata è prevista quando il “fatto contestato” al lavoratore è “insussistente” o rientra tra le condotte che i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili considerano punibili con una sanzione conservativa. In tali ipotesi, il giudice, “annullando” il licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e al pagamento di una “indennità risarcitoria”. Per quanto riguarda la reintegrazione, il legislatore ribadisce che, a seguito dell’ordine della stessa, il rapporto di lavoro si intende risolto qualora il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Per quanto riguarda, invece, la “indennità risarcitoria”, vi sono rilevanti differente. Anzitutto, ai fini della determinazione, deve essere detratto non solo quanto effettivamente percepito dal lavoratore durante il periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative (cd. aliunde perceptum), ma anche quanto egli avrebbe potuto percepire ove si fosse dedicato con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (cd. aliunde percipiendum). Inoltre, non è previsto un importo minimo ex lege, come è invece previsto per licenziamento nullo, e orale, e come era previsto per tutti i casi di invalidità del licenziamento.

Per contro, è previsto un importo massimo, in quanto la misura della indennità risarcitoria non può essere superiore a 12 mensilità di retribuzione globale di fatto. È per questa ragione che possiamo definire questo regime di tutela come “tutela reale attenuata”, in quanto, pur essendo prevista la reintegrazione, non è assicurato il risarcimento integrale del danno. Va, inoltre, rilevato che la indennità risarcitoria di cui trattasi dovrebbe, in base al testo della norma, risarcire forfettariamente il danno subito dal lavoratore nel periodo intercorrente dal giorno del licenziamento sino a quello “della effettiva reintegrazione”.

Ma, sulla base di una interpretazione razionalizzante, l’opinione prevalente è nel senso che l’indennità copra esclusivamente il periodo intercorrente sino alla data dell’ordine giudiziale di reintegrazione, poiché, altrimenti, il datore di lavoro potrebbe rifiutarsi di adempiere all’ordine stesso senza subire le conseguenze di tale inadempimento e privare di qualsiasi rilevanza l’ordine giudiziale di reintegrazione. Ne deriva che, nel periodo successivo all’ordine di reintegrazione sino alla effettiva reintegrazione, il lavoratore ha diritto all’ulteriore risarcimento dei danni derivanti dal mancato adempimento dell’ordine giudiziale.

 Infine, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, per un importo pari al “differenziale contributivo” tra la contribuzione che sarebbe stata maturata durante il periodo di estromissione e quella eventualmente accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.

La tutela esclusivamente indennitaria è, invece, prevista nelle “altre ipotesi” in cui il giudice accerti il difetto della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, ossia nelle ipotesi in cui il difetto della giusta causa o del giustificato motivo non derivi dall’insussistenza del “fatto” contestato o dalla sua punibilità con una sanzione conservativa in base al contratto collettivo o al codice disciplinare applicabile. In queste “altre ipotesi”, il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione (e, difatti, il rapporto di lavoro viene dal giudice dichiarato risolto), ma soltanto ad una indennità risarcitoria.

Tale indennità è definita “onnicomprensiva”, in quanto ricomprende e forfettizza ogni possibile voce di danno, ed è determinata dal giudice tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione alla anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

 

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