A fronte di un licenziamento illegittimo, perché in contrasto col modello legale (inefficace per mancanza di forma, annullabile per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, o nullo perché discriminatorio) è fondamentale operare una distinzione in ragione delle diverse dimensioni dell’azienda. Tale elemento, infatti, costituisce il presupposto per l’applicazione della tutela reale (il lavoratore deve essere reintegrato nel posto di lavoro) oppure della tutela obbligatoria (il datore sceglie se riassumere il lavoratore o pagare una penale).

La tutela reale si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non, con più di 15 dipendenti nell’unità dove opera il lavoratore licenziato, oppure nello stesso comune (per le imprese agricole però il numero è di 5 dipendenti); e in ogni caso ai datori di lavoro con più di 60 dipendenti, indipendentemente dal loro frazionamento. Nei 60 dipendenti sono inclusi i lavoratori occupati, compresi i dirigenti. Sono esclusi, invece, il coniuge ed i parenti entro il secondo grado, gli assunti con contratto di apprendistato o di inserimento o di reinserimento. Dubbi se devono essere inclusi i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato.

L’azione di nullità è imprescrittibile, mentre la prescrizione dell’azione di annullamento è quinquennale; per il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento del danno subito dal lavoratore vale la prescrizione decennale.

 

L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iuris

Il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore in forza dell’ordine contenuto nella sentenza di condanna.

L’art. 18 affida l’esecuzione di tale ordine allo stesso datore, che è tenuto a rivolgere al lavoratore un apposito invito a riprendere il servizio. In assenza di tale invito, il datore verserà in situazione di mora credendi (art. 1205 ss.c.c.), con la conseguenza che il lavoratore, nonostante l’inattività, avrà diritto alla retribuzione.

Tuttavia, se il lavoratore non accetta l’invito entro 30 giorni, il rapporto si intenderà risolto per dimissioni.

La reintegrazione è dunque come un obbligo di fare che, in quanto tale, è infungibile e incoercibile.

Quando la prosecuzione della prestazione non è possibile per volontà del datore, la stessa prosecuzione è prevista, dal legislatore, come vinculum iuris.

In tale prospettiva, l’art. 18 stabilisce che il datore è tenuto alla reintegrazione ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a cinque mensilità, a titolo di risarcimento del danno, per il periodo che va dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, nonché il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali e da questo si desume la continuità del rapporto, pur nell’assenza della prestazione.

Lo stesso art. 18 prevede anche un’ulteriore indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione. Oltre all’indennità risarcitoria per tutto il periodo di estromissione, il lavoratore reintegrato, entro il termine di 30 giorni dalla sentenza di reintegrazione, può optare per la risoluzione del contratto, obbligando il datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

 

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