Per tutte le ipotesi d’illegittimità. Il regime reale si applica, sempre che sussistano i requisiti, nell’ipotesi del licenziamento ingiustificato, ed in quella del licenziamento nullo per mancanza della forma scritta o per mo­tivo discriminatorio (art.18st.lv.); si applica altresì, per la forza attrattiva riconosciuta dalla stessa corte costituzionale, nelle altre ipotesi d’illegittimità, quale il motivo illecito diverso da quello discriminatorio e la violazione della procedura di conte­stazione e di discolpa nel caso del licenziamento disciplinare; procedura che la giurisprudenza di cassazione ritiene presupposto di “giustificatez­za” del licenziamento assimilato al giustificato motivo, con la conseguen­za dell’inefficacia nel regime reale e dell’illiceità nel regime obbligatorio. L’art.18 st.lv. non si applica, per la vigenza di una disciplina speciale, alle ipotesi di licenziamento temporaneamente inefficace perché esercitato durante i periodi di sospensione e alle ipotesi di nullità dei licenziamenti nei con­fronti della lavoratrice durante la gravidanza e matrimonio.

Il licenziamento, come recesso, co­stituisce un diritto potestativo in quanto comporta, se efficace, l’estinzio­ne del rapporto anche per il soggetto passivo. Ne consegue che, come per gli atti potestativi, si pone il problema dell’esistenza o meno dei presup­posti di efficacia del licenziamento. La sentenza che accerta l’inesistenza di tale presupposti assume la natura meramente accertativa, non dando mai luogo all’annullamento del licenziamento, ma alla semplice dichiara­zione d’inefficacia, anche nel caso del licenziamento ingiustificato, nono­stante che lo stesso art. 18 st.lv. lo denomini annullabile.

Tale impostazione dottrinaria non è accolta dalla giurisprudenza, la quale sostiene la natura costitutiva della sentenza che accerta l’infondatez­za del licenziamento, che l’art. 18 st.lv. qualifica come annullabile.

     La revoca del licenziamento. Il datore potrebbe revocare il licenzia­mento soltanto se dia luogo all’immediata reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno subito dal lavoratore, il quale tuttavia potrebbe rifiutare la revoca per ottenere il risarcimento nella misura minima di cin­que mensilità.

     La reintegra. In ragione dell’esistenza mai venuta meno del rapporto, in mancanza dei presupposti d’inefficacia del licenziamento, si spiega la reintegra materiale che consiste nel ripristino del lavoratore nel posto di lavoro che occupava prima del licenziamento, istituto presente anche in altri ordinamenti. L’ordine di reintegra consiste in obblighi di fare del datore, quale l’in­vito a riprendere il lavoro nei trenta giorni dallo stesso invito, nell’asse­gnazione delle mansioni, nella consegna del cartellino ecc..

Infungibilità degli obblighi: esclusione dell’esecuzione in forma speci­fica. Si tratta di obblighi di fare infungibili, che precludono, nonostante l’esecutività ope legis dell’ordine di reintegra, l’esecuzione in forma speci­fica. Questa consiste in provvedimenti del giudice competente diretti a fa­re eseguire gli obblighi da un terzo, con la spesa a carico del debitore (art. 612 cc.); ma quando gli obblighi sono infungibili l’esecuzione per surro­gatoria, ossia da parte di un terzo, è preclusa.

Coercizione indiretta. Si è prospettata la possibilità di forme indirette di coercizione del datore, ricorrendo all’art. 650 cp.; ma quest’ultimo punisce soltanto l’inottemperanza agli or­dini dell’autorità amministrativa, non a quelli dell’autorità giudiziaria. Egualmente è da escludere l’applicazione dell’art. 388 cp., che punisce l’attività rivolta ad impedire l’esecuzione for­zata, come la sottrazione fraudolenta o simulata di beni; non può esten­dersi, per la preclusione dell’applicazione analogica delle norme penali, al­l’ipotesi di violazione della condanna civile in quanto tale.

Lo strumento di effettività dell’ordine di reintegra è interno allo stesso art.18 st.lv., in quanto il datore di lavoro che non reintegra è tenuto a pagare egualmente la retribuzione a titolo di risarcimento del danno; la relativa somma è irripetibile in quanto essa viene pa­gata dal datore non solo come risarcimento del danno, ma anche come pe­nalizzazione per l’inottemperanza all’ordine giudiziario.

L’indennità sostitutiva. Il lavoratore potrebbe scegliere al posto della reintegra l’indennità sostitutiva prevista dall’art.18 st.lv. nella misura di quindici mensilità. Il termine per l’opzione è quello di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza; attraverso la motivazione il lavoratore può rendersi conto se la sentenza di primo grado è ben strutturata, con conse­guenti buone possibilità di resistere in appello; poiché l’art.18 non fissa un termine iniziale per l’opzione tra reintegra ed indennità sostitutiva si è ritenuto che il lavoratore potrebbe chiedere direttamente l’indennità so­stitutiva al posto della reintegra, fermo il risarcimento del danno per il periodo dal licenziamento alla sentenza.

Se il datore invita il lavoratore a ri­prendere servizio prima della comunicazione della sentenza, che dovrebbe essere depositata entro 15 gg., il prestatore può aderire all’invito, con la possibilità di dimet­tersi per giusta causa al momento della comunicazione della sentenza; op­pure può non aderire all’invito, in attesa della comunicazione della sen­tenza, fermo restando il venir meno del diritto alla retribuzione avendo il datore ottemperato, con l’invito, all’ordine di reintegra.

     Il risarcimento. In aggiunta alla reinte­gra, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità, da corrispondere anche nel caso, marginale, in cui la sentenza di reintegra si abbia prima di cinque mesi; quando la sentenza sopravviene in un tempo superiore ai cinque mesi il lavoratore ha diritto alle corrispondenti mensilità.

Esclusione del licenziamento illecito. Secondo un recente orientamen­to, il licenziamento sa­rebbe lecito, con conseguente esclusione dei danni, quando emanato senza colpa, come nel caso del licenziamento per assenza ingiustificata secondo il certificato medico dell’autorità di controllo. La tesi non convince in quanto il licenziamento è inefficace in mancanza dei presupposti, prescindendo del tutto dalla colpa del datore, con il risar­cimento del danno ricollegabile all’inadempimento della retribuzione do­vuta per la continuità del rapporto; il licenziamento illecito, nonostante che sia un atto negoziale ed esercizio di un diritto potestativo, è ammissi­bile soltanto se espressamente previsto, come è il caso del licenziamento ingiustificato nel regime obbligatorio, alla stregua dell’art. 8 L. 604/1966.

La misura ai fini del risarcimento del dan­no è quella della retribuzione globale di fatto da intendersi nel senso di quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse continuato a lavorare.

Il lavoratore ha poi diritto al danno ulteriore come ad esempio gli interessi pagati per un mutuo cui il lavoratore sia stato co­stretto per la sopravvivenza o le conseguenze negative per il mancato pa­gamento di un mutuo per l’acquisto della casa contratto sul presupposto della retribuzione. Inoltre potrebbe essere richiesto anche il danno biologico che sia derivato dal licenziamento, come il pregiudizio alla salu­te, ad esempio una sindrome depressiva.

Aliunde perceptum. Ammesso il danno ulteriore, deve riconoscersi, ai fini del risarcimento del danno effettivo la possibilità per il datore di de­trarre, in virtù dell’art. 123 cc., l’aliunde perceptum, ossia quanto il lavo­ratore ha percepito lavorando presso terzi nel periodo dal licenziamento alla sentenza. L’onere della prova, secondo l’orientamento prevalente, è a carico del da­tore, il quale deve darne una prova specifica. Secondo un orientamento da ultimo affer­matosi il datore potrebbe chiedere la detrazione anche in appello, non comportando la richiesta stessa un allargamento dell’oggetto del giudizio; è, infine, ritenuto che la detrazione dell’aliunde perceptum non costituisce un’eccezione in senso stretto e po­trebbe, di conseguenza, essere decisa dal giudice anche in mancanza di un’espressa richiesta di parte, sempre che il fatto costitutivo risulti ritual­mente acquisito al processo per essere stato tempestivamente allegato.

Aliunde percipiendum: limitata ipotesi di ammissibilità. Non dovreb­be ritenersi ammissibile, nonostante diversi orientamenti dottrinali, l’a­liunde percipiendum, ossia quanto il lavoratore avrebbe potuto guadagna­re usando l’ordinaria diligenza ai sensi dell’art.1227 co. 2 cc. Non si può infatti ritenere che il prestatore sia tenuto a darsi da fare per trovare altra occupazione al fine di ridurre il danno del licenziamento. Tuttavia tale ti­po di danno del datore potrebbe assumere rilevanza quando il prestatore lascia trascorrere, senza ragioni oggettive, un lungo lasso di tempo fino al momento del ricorso giudiziario, proponibile nel termine di cinque anni richiesti per far valere il diritto alla retribuzione; il lungo lasso di tempo potrebbe comportare un ingiustificato aumento degli interessi legali e della rivalu­tazione monetaria.

Sentenza di riforma e ripetibilità delle sole somme pagate per il perio­do dal licenziamento alla sentenza. Nel caso di sentenza di appello atte­stante la legittimità e l’efficacia del licenziamento, e quindi modificativa di quella di primo grado, il datore potrà, ai sensi dell’art. 336 cpc., ripetere la somma pagata a titolo di risarcimento del danno dal licenziamento alla sentenza. Deve escludersi, viceversa, la ripetizione delle somme pagate co­me corrispettivo per la prestazione di lavoro svolta dopo la reintegra.

Irripetibilità delle somme pagate per mancata reintegra. Anche le som­me pagate per la mancata reintegra non devono essere restituite dal lavo­ratore a seguito della sentenza di riforma, in quanto esse sono state corri­sposte come sanzione per l’inottemperanza del datore all’ordine di reinte­gra, comunque vincolante fino all’esistenza della sentenza di primo grado d’illegittimità del licenziamento.

 

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