A difesa di valori preminenti della persona, sono previste specifiche ipotesi di nullità del licenziamento. Si tratta delle ipotesi aventi ad oggetto: il licenziamento determinato da discriminazione per ragioni di affiliazione o attività sindacale e di partecipazione ad uno sciopero, per ragioni politiche, religiose, di sesso, di razza, di lingua, di handicap, di età, per ragioni basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personale; il licenziamento intimato per causa di matrimonio; il licenziamento della lavoratrice madre, dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino, e il licenziamento del lavoratore padre che fruisca del congedo di paternità per la durata del congedo stesso fino allo stesso limite di un anno di età del bambino; il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice e del lavoratore.

Il licenziamento è, altresì, nullo quando sia determinato da un motivo illecito, come nel caso del licenziamento cd. ritorsivo. Manca, però, una definizione legale di “ritorsione” e, quindi, è necessario delimitare il significato di tale termine, poiché il rapporto di lavoro può dare vita alle più eterogenee situazioni di divergenze di opinioni e contrasti di sentimenti, cosicché non ogni licenziamento che segua temporalmente ad una qualsiasi divergenza o contrasto può, di per sé, essere considerato ritorsivo ed illecito. Anche per questa ragione, la giurisprudenza non solo pone a carico del lavoratore l’onere di provare che il licenziamento sia determinato dal motivo della ritorsione, ma esclude, comunque, la nullità del licenziamento quando risulti che il motivo ritorsivo non sia stato unico e determinante.

Nel 2010, allo scopo di accelerare la definizione delle controversie e soddisfare l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, che è un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico, è stata profondamente innovata la disciplina della decadenza relativa all’impugnazione del licenziamento. Anzitutto, è stato previsto che l’onere dell’impugnazione, a pena di decadenza (ed entro il termine di 60 giorni), si applica a tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, anche nel caso di licenziamento collettivo.

L’unica eccezione riguarda il licenziamento intimato oralmente. Tale impugnazione può essere proposta con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavoratore di contestare il licenziamento. A tal fine, è espressamente consentito che il lavoratore si avvalga dell’intervento dell’organizzazione sindacale. La modifica più rilevante è costituita dalla disposizione in base alla quale l’impugnazione proposta con atto stragiudiziale diviene inefficace se, entro i successivi 180 giorni, il lavoratore non provvede anche al deposito del ricorso giudiziale o, in alternativa, alla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.

In questo ultimo caso, se la conciliazione o l’arbitrato sono rifiutati o non si raggiunge l’accordo necessario per il loro espletamento, inizia a decorrere dalla data del rifiuto o da quella del mancato accordo un ulteriore termine di 60 giorni entro il quale deve essere depositato il ricorso al giudice, a pena di decadenza. L’introduzione del termine di decadenza per l’azione giudiziale è stata resa necessaria perché il licenziamento è un atto che incide in modo traumatico sulla vita della persona e allo stesso tempo condiziona anche l’organizzazione dell’impresa.

La possibilità, consentita dal regime previgente, di proporre il ricorso al giudice entro il termine di prescrizione quinquennale previsto per le azioni di annullamento (o, addirittura, senza alcun limite temporale nel caso di azione volta a far accertare la nullità del licenziamento) determina il protrarsi di situazioni di incertezza per una durata prolungata (o, addirittura, indefinita). Il regime previgente, quindi, mal si conciliava con la natura dell’interesse del lavoratore giuridicamente tutelato e, allo stesso tempo, rappresentava un elemento di incertezza nelle scelte organizzative dell’imprenditore.

In coerenza con le disposizioni volte ad accelerare l’eventuale instaurazione del giudizio, il legislatore ha anche introdotto “un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione” delle controversie giudiziali aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti. Tale regime processuale, però, è applicabile esclusivamente ai rapporti di lavoro instaurati sino al 7 marzo 2015. Esso, infatti, ha sollevato diverse critiche riguardo alla sua efficacia e funzionalità, cosicché il decreto legislativo 23 del 2015 ha escluso la sua applicazione nel caso di licenziamenti intimati a lavoratori assunti dopo la predetta data.

Il nuovo regime della decadenza previsto per l’impugnazione del licenziamento, con alcuni specifici adattamenti, è stato esteso all’impugnazione di altre tipologie di atti in relazione ai quali è stata avvertita la medesima esigenza di evitare il protrarsi di situazioni di ingiustificata incertezza. E così, il nuovo regime è applicabile anche: all’ipotesi in cui l’interruzione del rapporto riguardi un contratto di lavoro non subordinato ove da parte del lavoratore venga contestata la sua qualificazione ed invocata l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato; al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto; al trasferimento del lavoratore da una unità produttiva all’altra; al trasferimento del lavoratore da un imprenditore ad un altro ai sensi dell’articolo 2112 del Codice Civile; in ogni altro caso, compresa l’ipotesi della somministrazione irregolare, in cui il lavoratore chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto.

 

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