Gli istituti di risoluzione stragiudiziaria
Autonomia privata. Gli strumenti di risoluzione stragiudiziara delle controversie di lavoro sono la conciliazione e l’arbitrato, entrambi trovano il loro presupposto nell’autonomia delle parti.
La conciliazione consiste in una transazione prospettata dalle parti ed approvata dal conciliatore o da questi suggerita ed accettata dalla parti; l’esito finale della conciliazione non è quindi vincolante per le parti, che potrebbero, se non raggiungono l’accordo, rifiutarsi di aderire alla proposta formulata dal conciliatore.
All’arbitro non viene viceversa conferito il compito di formulare una soluzione transattiva della decisione, ma di emettere una decisione, il lodo, con il quale, sulla base del contraddittorio tra le parti e della fase istruttoria, si stabilisce quale delle due parti ha ragione e quale ha torto.
L’arbitrato può essere rituale ed irrituale. La differenza consiste nel fatto che nell’arbitrato rituale vengono predeterminate, ai sensi dell’art. 816 cpc., le norme procedurali alle quali gli arbitri si devono attenere per garantire adeguatamente ad entrambe le parti il diritto di difesa. Altra differenza consiste nel fatto che l’arbitrato rituale si conclude con il decreto del giudice che, accertatane la regolarità, conferisce al lodo arbitrale la stessa natura di una sentenza.
L’arbitrato può essere secondo diritto o secondo equità, sempre che oggetto della decisione non siano diritti indisponibili, per i quali è escluso il giudizio equitativo (art. 114 cpc.).
Clausola compromissoria e compromesso. Alla base dell’arbitrato vi può essere la clausola compromissoria, con la quale vengono devolute all’arbitro le controversie relative all’applicazione del contratto. Altro atto di autonomia può essere il compromesso, con il quale qualsiasi controversia potrebbe essere affidata ad arbitri che vengono comunque nominati con il compromesso.
Il tentativo obbligatorio ed i tipi di conciliazione
Presupposto di procedibilità. In materia di lavoro la conciliazione ha assunto il carattere obbligatorio, come presupposto di procedibilità del ricorso (d.lgs. 80/1998 e d.lgs. 387/1998); dopo la richiesta del tentativo di conciliazione l’inutile decorso di 60 giorni per il settore privato e di 90 giorni per il settore pubblico assume il valore di fallimento dello stesso tentativo, cui consegue la procedibilità del ricorso; se il lavoratore si rivolge al giudice senza avere preventivamente tentato la procedura di conciliazione, il giudice gli concede il termine di sessanta giorni per il tentativo di conciliazione, pena l’inammissibilità. Nel caso di mancata conciliazione nel termine di 60 giorni la parte interessata ha 180 giorni per riassumere il giudizio (art. 410-412 bis cpc). Si ritiene viceversa che l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione non riguarda la domanda riconvenzionale, ai sensi dell’art. 36 cpc. in quanto si allungherebbero i tempi del processo, in contrasto con l’art. 111 cost. senza che ricorra la ratio per la quale il tentativo di conciliazione ha acquisito il valore di presupposto di procedibilità.
I tipi di conciliazione. La conciliazione può avvenire davanti alla commissione amministrativa istituita presso la direzione provinciale del lavoro oppure presso i collegi previsti dai contratti collettivi oppure dinanzi al funzionario di un sindacato rappresentativo (artt. 410 e. 411 cpc.). Nel caso della conciliazione sindacale occorre, secondo la cassazione, che le parti firmino nuovamente il verbale di conciliazione dinanzi al direttore dell’ufficio che ne deve accertare l’autenticità; soltanto in tal modo la conciliazione diviene inoppugnabile ai sensi dell’art. 2113 co ult. cc..