Occorre quindi analizzare quella categoria di contratti collettivi stipulati da sindacati forniti di certi requisiti di rappresentatività, ma per farlo è necessaria una premessa sul perché, ad un certo stadio di sviluppo del sistema sindacale, al concetto di rappresentanza sia stato affiancato quello di rappresentatività .

Il ricorso alla rappresentanza corrispondeva ad un momento storico nel quale la legge statuale si era tenuta rigorosamente fuori dal diritto sindacale: affermare che il sindacato tutela l’interesse collettivo dei lavoratori alla stregua di un rappresentante, infatti, equivale a ritenere accettabile qualunque sindacato.

Ad un certo punto, tuttavia, l’attore statuale non ha più potuto esimersi dall’intervenire, in qualche modo, nelle relazioni sindacali. Ciò è avvenuto con lo Statuto dei diritti dei lavoratori (art. 19), che ha riconosciuto gli organismi di rappresentanza dei lavoratori in azienda, costituiti nell’ambito dei sindacati esterni (non di qualunque sindacato). Occorreva quindi un criterio di selezione dei soggetti sindacali rilevanti, ed esso è stato offerto, appunto, dal concetto di rappresentatività , grazie al quale lo Stato è uscito dalla precedente condizione di astensionismo, dando luogo ad una crescita del grado di istituzionalizzazione del sistema sindacale. La nozione di rappresentatività non ha scacciato quella di rappresentanza , ma si è solo affiancato ad essa:

  • la rappresentanza è un istituto giuridico disciplinato dal codice civile.
  • la rappresentatività è una nozione sociologica, che designa la capacità di un’organizzazione di esprimere adeguatamente il consenso dei soggetti ai quali essa si rivolge e che aspira a rappresentare.

Tale concetto, comunque, una volta trasposto nell’ordinamento giuridico, deve essere interpretato n vista dell’applicazione, e può esserlo soltanto ricorrendo a vari possibili indici di rappresentatività (es. numero di lavoratori iscritti).

Il ricorso alla nozione di rappresentatività è continuato e si è diffuso nella legislazione successiva, la quale ha utilizzato tale nozione proprio per prevedere e disciplinare specifiche figure di contratti collettivi, rivolte alla produzione di dati effetti giuridici (es. previsione di orari di lavoro flessibili, accesso alle forme di lavoro a tempo parziale, contratti di solidarietà difensivi).

Nella legislazione di ultimo conio, inoltre, si è soliti fare riferimento non più ai sindacati maggiormente rappresentativi , bensì a quelli comparativamente più rappresentativi . Le due locuzioni possono essere considerate equivalenti, sebbene la seconda operi un tentativo di introdurre una selezione interna anche in seno al novero dei sindacati maggiormente rappresentativi.

Le disposizioni legislative in questione, tuttavia, hanno accuratamente evitato di pronunciarsi sul regime di efficacia soggettiva dei contratti collettivi, e ciò onde evitare il rischio di incorrere in un’imputazione di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 39. Tale elemento, chiaramente ha lasciato aperti vari interrogativi teorici, dai quali si comprende, tra le altre cose, come sia complicato dare una risposta alla domanda se anche questi contratti collettivi, demandati a sindacati particolarmente rappresentativi, siano assoggettati al principio privatistico della rappresentanza, o godano invece di un’efficacia più ampia, erga omnes.

In giurisprudenza e in dottrina, circolano una serie di argomenti in virtù dei quali si tende ad attribuire a tali contratti un’efficacia estesa a tutti i lavoratori del contesto di riferimento. Allorché ciò accade, tuttavia, il sistema diviene ancora più complicato e singolare, nella misura in cui vi penetra una sorta di doppio regime di efficacia del contratto collettivo:

  • il regime giuridico dominante è quello privatistico.
  • si presentano anche situazioni normative sottoposte all’influsso di logiche pubblicistiche
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