La Costituzione denomina “l’ordinamento della repubblica”, con particolare riguardo alla disciplina dei singoli “poteri” dello Stato e dei loro reciproci rapporti. A questa stregua due sono i perni di tali premesse: da un lato essi consistono nelle proposizioni centrali, per cui “l’Italia è una Repubblica democratica”, sicchè “la sovranità spetta al popolo”; d’altro lato essi poggiano sul testo “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

L’affermazione che “l’Italia è una Repubblica”, da cui prende le mosse la carta costituzionale, rappresenta il portato necessario del referendum istituzionale svoltosi il 2 giugno 1946, che vincolò la stessa assemblea costituente: “in questa parte la costituzione non aggiunge o toglie nulla all’esito del referendum”. In altre parole, è qui che può farsi consistere la vigente costituzione materiale dello stato italiano, se si vuole assegnare a questo termine un significato preciso, giuridicamente apprezzabile.

Ma qual è il senso che si deve attribuire in questa chiave alla parola repubblica? Alla nozione costituzionale della “forma repubblicana” appare coessenziale l’attributo della democraticità. Non è casuale che la costituente abbia respinto un emendamento inteso a preannunciare testualmente il carattere parlamentare dell’ordinamento italiano. Che la repubblica democratica abbia una forma di governo parlamentare o presidenziale oppure mista non attiene al valore sottratto alla stessa revisione costituzionale. Essenziale è soltanto che le eventuali riforme della Costituzione non giungano a negare la democrazia.

La democraticità della repubblica; democrazia diretta e democrazia rappresentativa

In che cosa consiste la democrazia? Etimologicamente, la democrazia suole venire definita quale potere del popolo o quale governo del popolo. Ma in presenza di una collettività come quella popolare, in cui la volontà dei cittadini non è altro che una somma di volontà individuali fra loro distinte, la definizione dev’essere spinta più a fondo. Una prima risposta consiste nel riconoscere che ogni regime effettivamente democratico si regge sul principio maggioritario.

Senonché una regola siffatta può essere intesa tanto in termini assoluti, ossia nel senso che in regimi del genere “valgono solo i più”, quanto in maniera temperata, vale a dire nel senso che i “più prevalgono sui meno, ma contano anche i meno”. Nella prima specie di sistemi il principio maggioritario finisce per fondare una democrazia totalitaria.

Viceversa, nelle democrazie di stampo liberale e pluralistico, la costituzione o le leggi fondamentali del regime garantiscono l’avvicendamento delle contrapposte forze politiche al governo del paese, secondo il principio “dell’alternarsi del comando e dell’obbedienza, per cui i governanti di oggi sono in potenza sudditi di domani”.

È in quest’ultimo gruppo che giuridicamente rientra la nostra repubblica democratica. Connaturate al regime vigente in Italia sono in tal senso le libertà fondamentali, proclamate e tutelate nella prima parte della costituzione: a cominciare dalle libertà di associazione e di manifestazione del pensiero.

Ma nel medesimo quadro ricadono anche garanzie formali, come quelle consistenti nella rigidità della costituzione e nel sindacato della corte costituzionale sulla legittimità delle leggi. Insorge però a questo punto un ulteriore dilemma, riguardante le forme di esercizio del potere democratico. Anche sotto questo aspetto si contrappongono due modelli: l’uno costituito dalla democrazia diretta o partecipativa; l’altro consistente nella democrazia indiretta i o rappresentativa.

Nel primo caso, ciascun cittadino dotato della capacità di agire prende parte all’adozione di determinate scelte politiche. Nel secondo caso, il corpo elettorale si limita ad eleggere uno o più collegi politicamente rappresentativi del popolo, cui resta affidata la deliberazione delle leggi e, più in generale, la determinazione dell’indirizzo politico.

Astrattamente, il diretto coinvolgimento di ogni cittadino “attivo” nella definizione della politica generale del Paese parrebbe concretare la forma più perfetta, autentica e compiuta della democrazia. In altri termini, quella diretta o partecipativa costituirebbe una democrazia “governante”, in antitesi alla democrazia “governata”, che invece vedrebbe gli elettori spogliati del potere effettivo da parte degli eletti.

Ma il pieno autogoverno del popolo non può concentrarsi, in verità, se non quando concorrano certe premesse, che storicamente si sono realizzate solo in rari momenti ed in rare occasioni. Quella che si suole definire “democrazia degli antichi” forma, pertanto, nella prospettiva moderna o contemporanea, un modello fittizio ed “affatto irreale”.

Del resto, quando si consideri che il principale istituto di democrazia diretta è oggi il referendum, ci si può rendere subito conto dell’impossibilità di farne un uso sistematico; la macchinosità delle consultazioni referendarie basterebbe ad escludere che si possa attivarle tutti i giorni (o più volte al giorno), come sarebbe indispensabile per fondare su di esse la politica generale del parlamento.

Ciò spiega che in Italia la democrazia diretta abbia bensì ricevuto un qualche spazio; ma sia rimasta ferma, nell’intero periodo repubblicano, la predominanza degli istituti di democrazia rappresentativa, imperniata soprattutto sul Parlamento eletto a suffragio universale in entrambi i suoi rami. Proprio perché dotato del più alto grado di legittimazione democratica, il Parlamento è il primo fra gli organi costituzionali rappresentativi del popolo.

 

 

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