Il danno da inadempimento della obbligazione pecuniaria, per effetto di una svalutazione monetaria generalizzata ad ogni uso del denaro, salvo prova diversa o contraria, può essere determinato sulla base di indici uffici ufficiali di svalutazione monetaria in relazione al costo della vita.

Non contribuisce a portare chiarezza la sentenza in epigrafe nell’annosa questione del risarcimento del danno da svalutazione per inadempimento di obbligazioni pecuniarie. Ancora una volta la questione è prospettata in termini quasi azzerati, e cioè senza tenere conto di una copiosa elaborazione, giurisprudenziale e dottrinale, anche recente sul punto. Il problema oggetto di esame, cioè quello del danno da svalutazione, tende ad essere posto e risolto più in termini empirici che sistematici. L’iter giurisprudenziale sulla questione della rilevanza della svalutazione sub specie damni è iniziato con la sentenza della Cassazione 5670 del ’78 che statuiva il principio della perdita del potere di acquisto della moneta, in armonia con i principi della scienza economica alle quale deve adeguarsi quella giuridica, rappresenta un danno concreto e reale, non bisognoso di prova da parte del creditore, essendo la svalutazione un fatto notorio e la cui misura può desumersi da indici pubblicizzati di sicura attendibilità.

A pochi mesi di distanza da detta pronuncia, le Sezioni Unite della Cassazione ritornavano sulla questione con una statuizione che, mentre faceva salvi i principi andava incontro ai creditori di somme sul terreno della prova attraverso l’identificazione di figure sociologicamente significative di creditori pecuniari, in ordine alle quali è ragionevole attendere che corrispondano determinati modi di impiego del denaro. Il pericolo era che tale modello decisionale rimanesse pressoché inoperante e che le decisioni dei giudici tornassero ad adagiarsi su tecniche presuntive spinte al limite delle loro possibilità operative o di credibilità. È quanto ha avuto luogo successivamente per merito di pronunce ove se si escludono da un lato le forme di risarcimento automatico, si ritorna tuttavia a riciclare criteri, come quelli della normalità e della possibilità integrati, ove occorra, da criteri equitativi.

Tra le pronunce occorre citare quella della Corte di Appello di Napoli, la quale si è sobbarcata al difficile compito di verificare la redditività dell’attività imprenditoriale del creditore, giungendo a ritenere che questo creditore avrebbe potuto mediamente assumere un appalto l’anno, tenuto conto delle crisi ricorrenti nelle pubbliche amministrazioni in taluni anni e perciò dell’andamento del mercato del settore edilizio, onde si poteva ritenere sulla base anche di tariffe del genio civile che prevedono un utile per l’impresa lordo del 24% e netto del 20% che la redditività netta dell’impresa Rizzo per la propria attività aziendale sia stata negli anni in considerazione appunto del 20%. Una pronuncia del tribunale di Sala Consilina del 29 agosto 1979, pur prestando formalmente adesione alla pronuncia della Cassazione, se ne discostava poi nella sostanza, introducendo quale criterio di determinazione, in via presuntiva, del danno, il tasso di sconto praticato dalla Banca d’Italia oppure l’interesse praticato dalla Pubblica Amministrazione sui buoni postali fruttiferi. l’obbiettivo è di predeterminare criteri generali per la liquidazione del danno.

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