Cassazione Civile – Sezioni Unite, 4 dicembre 1992, n. 12942

L’obbligazione del venditore di restituire al compratore la somma ricevuta a titolo di prezzo, in conseguenza della risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, configura un debito di valuta, avente ad oggetto l’originaria prestazione pecuniaria, del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all’adempiente. Non può, dunque, procedersi alla rivalutazione automatica della somma dovuta in restituzione, ma della svalutazione monetaria dovrà tenersi conto nella liquidazione dei danni derivanti dalla mancata disponibilità di quella somma.

Con la sentenza in epigrafe le Sezioni Unite della Cassazione prendono posizione relativamente alla natura del debito derivante dalla risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento di una parte. Che il rapporto tra restituzioni e risarcimento a seguito della risoluzione del contratto non sia tra i più pacifici è testimoniato dallo stato delle dottrine al riguardo, che ha visto il succedersi di diverse prospettazioni. D’altro canto, ha sempre rappresentato un nodo dilemmatico il rapporto tra la natura indubbiamente costitutiva della pronuncia di risoluzione e gli effetti retroattivi di cui la stessa è dotata (art. 1458), retroattività la cui valenza, tuttavia, in termini di risarcimento e\o restituzioni può apparire ambigua. l’attribuzione di una funzione sanzionatoria e\o risarcitoria al congegno delle restituzioni si è avvalsa di argomenti teorici molteplici e non privi di forza persuasiva.

E così, al contraente fedele si deve garantire non solo il risarcimento del c.d. danno positivo, ossia il profitto che esso avrebbe conseguito qualora il contratto avesse avuto esecuzione ma anche voci o componenti del danno negativo, quali i frutti o le utilità da esso perduti per la mancata disponibilità della prestazione a suo carico. Il compito di assicurare il risarcimento delle voci di danno negativo sarebbe spettato al regime delle restituzioni raccordato alla normativa dell’indebito (art. 2033).

La principale contraddizione cui un siffatto sistema perviene è stata denunciata da una attenta dottrina quando ha osservato che si viene a garantire al contraente risolvente la possibilità di cumulare il danno positivo con voci rilevanti di danno negativo, così da lucrare complessivamente un profitto complessivo addirittura superiore a quello che avrebbe realizzato tanto se il contratto avesse avuto regolare esecuzione quanto se non lo avesse concluso.

Più mature riflessioni inducono a condividere quel già la maggioranza della dottrina ha enunciato e che ora riceve anche l’autorevole avvallo della Corte di Cassazione. In realtà è il frutto di più adeguati approfondimenti sul versante restituzione-risarcimento e, in particolare, della raggiunta autonomia di cui si gode la tutela restitutoria a fronte di quella risarcitoria. La diversa struttura dei rimedi è del resto confacente alla diversa funzione da essi esercitata.

Mentre il rimedio a carattere restitutorio obbedirà tendenzialmente all’esigenza di assicurare al solvens la stessa prestazione da esso eseguita o il valore di essa ove la restituzione non sia possibile, il risarcimento ha come esclusivo parametro la perdita patrimoniale dal soggetto subita, onde sarà dovuta una somma a compensazione del danno prodotto.

Richiedi gli appunti aggiornati
* Campi obbligatori

Lascia un commento