Il ricorrente deve innanzitutto preoccuparsi di affidare a un legale la stesura del ricorso, che rappresenta l’atto introduttivo del giudizio amministrativo, il primo atto processuale. Il ricorrente deve altresì versare il contributo unificato.

Né il TU delle leggi sul Consiglio di Stato, né la legge TAR dedicano attenzione al contenuto del ricorso, limitandosi a disciplinare le modalità di notificazione all’amministrazione e alle altre parti.

La funzione strumentale del ricorso, quale atto contenente le doglianze del ricorrente, emerge, quindi, dalla stessa disciplina processuale che ne regolamenta la notificazione alle controparti, a tutela del principio del contraddittorio. Essa, tuttavia, non dedica alcuna attenzione al suo contenuto probabilmente ritenendo che il medesimo, contenendo le doglianze del ricorrente, debba essere confezionato nel modo che meglio si adatta al contenuto di queste doglianze.

Anche nel processo amministrativo, quindi, trova applicazione il principio della strumentalità delle forme: per cui il ricorso deve essere formulato nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo.

Meramente indicativa, pertanto, risultava l’identificazione del contenuto del ricorso fissata dall’art. 6 del regolamento di procedura per i giudizi davanti al Consiglio di Stato.

Il Codice ha disciplinato espressamente il contenuto del ricorso nell’art. 40; tuttavia, riprende integralmente l’art. 6 menzionato, essendo soltanto stata aggiunta, tra gli elementi del ricorso, l’indicazione dei mezzi di prova, sebbene non sanzionata, e la specificazione, in luogo delle conclusioni, dei provvedimenti chiesti al giudice. Quest’ultima non sembra una novità, ma corrisponde alla dizione utilizzata in precedenza.

Il ricorso va redatto in forma scritta. Il secondo correttivo al codice varato nel luglio 2012, dispone che la violazione della regola che impone l’indicazione dei motivi specifici rende inammissibile il ricorso, il quale deve altresì contenere, ai sensi dell’art. 40 cpa:

  1. Intestazione: indicazione, a pena di nullità, del giudice adito;
  2. Epigrafe: essa comprende
    1. elementi identificativi della parte ricorrente, ossia nome e cognome se trattasi di persone fisiche, denominazione se persone giuridiche, con l’indicazione dell’organo dotato di rappresentanza processuale e l’elezione facoltativa di domicilio nel comune sede del TAR o della sezione staccata. Se non elegge domicilio, la parte si intende domiciliata presso la segreteria del Tar o della sezione distaccata; queste informazioni possono essere anche sommarie se comunque risultano sufficienti per individuare i soggetti; per esempio non è necessario indicare la residenza o il domicilio del ricorrente, se ciò non incide in ordine alla sua individuazione;
    2. elementi identificativi del difensore, non che è delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto
    3. i difensori indicano nel ricorso o nel primo atto difensivo il proprio indirizzo di pec e il proprio recapito di fax dove intendono ricevere le comunicazioni relative al processo
    4. l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato e la data della sua notificazione, comunicazione o della sua conoscenza, importante ai fini del rispetto del termine per la proposizione del ricorso. Anche qui si ritiene che vi possa essere una indicazione sommaria se comunque si individua ugualmente
    5. nei ricorsi avverso il silenzio è invece sufficiente indicare gli estremi dell’istanza inviata all’amministrazione

Se il ricorrente non conosce gli estremi di un atto di cui egli avverta la carica lesiva, sorge per lui l’onere di impugnarlo per evitare la decadenza: è difatti sufficiente la piena conoscenza dell’atto stesso, costituita dalla conoscenza dei suoi elementi essenziali. In queste ipotesi il ricorrente deve fornire gli elementi a lui noti idonei a consentirne l’identificazione.

  1. Esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso, con l’indicazione degli artt. di legge o di regolamento che si ritengono violati, dei mezzi di prova e dei provvedimenti chiesti al giudice.

Si tratta della cd causa petendi, ossia la ragione giuridica per cui si agisce, costituita dall’interesse legittimo leso dall’atto illegittimo. Un vizio di esso è la causa di tale illegittimità.

I MOTIVI DEL RICORSO, invece, sono le singole e concrete difformità del comportamento amministrativo rispetto al paradigma normativo e costituiscono le specificazioni del vizio.

I motivi costituiscono uno degli elementi essenziali del ricorso: questo, difatti, a pena di nullità, deve contenere “i motivi”, ossia le ragioni di diritto su cui si fonda il ricorso. Essi rappresentano le ragioni di illegittimità del provvedimento impugnato. Nell’azione di impugnazione, quindi, i motivi corrispondono ai vizi di legittimità o, quando ciò sia possibile, ai vizi di merito, in relazione ai quali il ricorrente chiede l’annullamento dell’atto.

La giurisprudenza ha precisato che, nella deduzione dei motivi, ciò che conta è che la censura sia comprensibile sia nella parte in cui ricostruisce in fatto il comportamento dell’amministrazione sia nella parte in cui si definisce in diritto quale avrebbe dovuto essere il comportamento corretto e qual è pertanto l’aspetto deviante.

Il ricorrente, quindi, è tenuto ad individuare, nel motivo, sia l’elemento in fatto, sia l’elemento in diritto. In riferimento a quest’ultimo, però, può essere sufficiente anche la semplice individuazione dei principi di diritto che si ritengono violati, senza che sia necessaria una trascrizione esatta degli articoli di legge o di regolamento, quando questi siano facilmente individuabili dalla prospettazione della censura. Si applica, infatti, in questo caso il principio iura novit curia in forza del quale il giudice è tenuto, autonomamente a ricostruire il quadro normativo in relazione al quale deve valutare la fondatezza della domanda.

Queste regole, tuttavia, non potranno trovare applicazione nel momento in cui il ricorrente faccia valere con il ricorso l’esistenza di una figura sintomatica di eccesso di potere. In tale circostanza, infatti, il ricorrente dovrà necessariamente indicare con precisione quale aspetto dell’eccesso di potere intende prospettare perché, diversamente, dalla sola enunciazione del fatto non sarà possibile comprendere quale sia l’aspetto dell’uso non corretto del potere discrezionale amministrativo che egli ha voluto censurare.

Ad es. un provvedimento fondato su una motivazione estremamente stringata può essere censurato sia deducendosi un difetto di motivazione e cioè l’insufficienza di motivazione, sia una illogicità della medesima. Pertanto in questo caso il giudice, dalla semplice enunciazione della “stringatezza della motivazione” non è in grado di cogliere qual è il profilo di illegittimità dell’atto che il ricorrente ha voluto denunciare.

Non dobbiamo dimenticare che il processo amministrativo è un processo ad oggetto rigido: questo significa che essendo il termine per ricorrere un termine perentorio, non è possibile una modificazione dei motivi dedotti qualora la modificazione sia tesa ad un ampliamento del numero e del contenuto dei motivi.

Salvo alcune eccezioni, ad es. nella giurisdizione esclusiva, quindi, il ricorso introduttivo è estremamente importante in quanto il ricorrente deve, fin dall’inizio del processo, individuare esattamente l’ambito della censura che intende muovere, non potendo più operare delle correzioni della propria impostazione in un momento successivo.

Fin dall’origine, tuttavia, la giurisprudenza ha individuato un temperamento a questa rigidità per consentire al ricorrente di replicare alle difese dell’amministrazione qualora queste conducano all’introduzione nel giudizio di fatti in precedenza sconosciuti, attraverso il deposito di nuovi documenti.

Infatti, il termine perentorio per ricorrere decorre dalla notificazione o comunicazione dell’atto impugnato o comunque dal momento in cui il ricorrente ne ha avuto piena conoscenza. Ma quella che noi chiamiamo “piena conoscenza” in realtà è una conoscenza solo parziale.

Essa, infatti, non significa conoscenza integrale del provvedimento bensì conoscenza della sua portata lesiva. La piena conoscenza si concreta, pertanto, nella conoscenza del solo dispositivo del provvedimento con la conseguenza che il ricorrente si vedrà costretto a formulare l’atto introduttivo del giudizio senza essere a conoscenza né del contenuto integrale del provvedimento, né degli atti del procedimento sul quale il medesimo si fonda.

Il ricorrente si troverebbe, a questo punto, in una posizione di netto svantaggio rispetto all’amministrazione: pensiamo ad una impugnazione dell’atto per difetto di motivazione. Instaurato il giudizio risulta invece una motivazione in precedenza sconosciuta al ricorrente al punto di ritenere priva di fondamento l’originaria censura ma senza altresì la possibilità di contestare il contenuto della motivazione addotta dall’amministrazione.

Per tali ragioni, sin dagli anni ’20, la giurisprudenza consente al ricorrente la possibilità di proporre i c.d. motivi aggiunti ossia la formulazione di nuove censure, discendenti dalla conoscenza sopravvenuta del provvedimento impugnato e di altri atti del procedimento, la cui ignoranza non fosse imputabile al ricorrente. Questa conoscenza sopravvenuta normalmente è di natura endoprocessuale derivante cioè dalla produzione in giudizio di atti da parte della P.A.

Recentemente, tuttavia, la giurisprudenza ha ammesso che la deduzione di motivi aggiunti possa avvenire anche sulla base di una conoscenza sopravvenuta extraprocessuale, acquisita sempre sulla base di atti e provvedimenti della P.A., purché sia intervenuta senza colpa dopo la scadenza del termine per la proposizione del ricorso .

Il Codice, nel disciplinare il contenuto del ricorso, per quanto concerne i motivi ha semplicemente aggiunto alla dizione in precedenza vigente l’aggettivo “specifici”.

Tale precisazione comporta l’inammissibilità dei motivi generici e quelli dei quali non sia dato individuare la norma violata oppure la configurazione che assume il vizio di eccesso di potere, anche se occorre tenere presente che ciò è ammissibile nel caso in cui il ricorrente conosca, fin dall’inizio, l’atto amministrativo le cause della sua invalidità.

La giurisprudenza, ispirata al principio di conservazione degli atti, ritiene che l’erronea o carente indicazione delle norme violate non comporta l’inammissibilità del ricorso, mentre la tendenza più recente sembra più restrittiva.

Secondo la giurisprudenza, il principio in forza del quale non è consentito alla parte di ampliare l’oggetto della controversia preclude la proposizione di nuovi motivi non dedotti nel ricorso amministrativo nei casi in cui il ricorso giurisdizionale segua a un ricorso gerarchico.

Il ricorrente può peraltro graduare i motivi, dichiarando l’interesse all’accoglimento di alcuni solo in via subordinata, per l’ipotesi in cui altri motivi non vengano accolti: la giurisprudenza, tuttavia, riconosce talvolta al giudice il potere di stabilire l’ordine di priorità delle doglianze.

È altresì ammessa la rinunzia a qualcuno dei motivi. Il giudice è vincolato alla deduzione dei motivi operata dal ricorrente, nel senso che, in virtù del principio dispositivo, egli non può esaminare profili di illegittimità non rappresentati dalla parte. In forza del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice dovrebbe pronunciarsi su ogni domanda.

Non è tuttavia infrequente la prassi giudiziale dell’assorbimento dei motivi: una volta accolto il ricorso per un motivo, il giudice rifiuta di scendere all’esame delle altre doglianze prospettate.

Il riconoscimento del motivo con cui si censura il vizio di incompetenza, che qualora dedotto deve necessariamente essere esaminato, ad es., comportante l’annullamento dell’atto, può produrre l’assorbimento degli altri vizi. In ogni caso, per estendere la tutela del cittadino, la giurisprudenza più recente tende a escludere che l’accoglimento del vizio di incompetenza comporti l’assorbimento degli altri vizi.

Comunque, l’assorbimento dovrebbe essere ammesso solo nell’ambito dello stesso capo di domanda, cioè con riferimento ai punti di cognizione che si confluiscono.

  1. Le conclusioni: si tratta del cd petitum, ossia l’oggetto dell’azione e quindi il provvedimento richiesto al giudice.

Esso, di solito, consiste nella domanda di annullamento dell’atto, ma può trattarsi altresì di richiesta di modificazione dell’atto stesso, di dichiarazione della situazione controversa, a seconda della tipologia di processo; si ricordi che è ammessa anche la domanda volta a ottenere una condanna.

Nel giudizio di impugnazione, le conclusioni possono essere esclusivamente la richiesta di annullamento dell’atto impugnato. Questo significa che le conclusioni possono non essere specificate in modo articolato e possono essere dedotte dalla stessa impostazione del ricorso, dal momento che, rivolgendosi al giudice, è chiaro ciò che il ricorrente ha inteso ottenere.

Diverso è il caso in cui si eserciti un’azione di accertamento e/o di condanna. In questo caso, infatti, il semplice riferimento all’identificazione della categoria dell’azione non è sufficiente per comprendere il contenuto del provvedimento che si richiede al giudice. Occorrerà, quindi, specificare di quale diritto si richiede l’accertamento o al pagamento di quale somma si richiede la condanna. Le conclusioni in questo caso, pertanto, dovranno essere sufficientemente articolate, in modo da permettere al giudice di pronunciare una sentenza con un dispositivo specifico che qualora accolga la domanda del ricorrente sia idoneo a consentirgli di ottenere il bene della vita al quale ha diritto.

Nell’attuale esperienza giurisdizionale, tuttavia, la mancanza di una autonoma disciplina dell’azione di accertamento e di condanna ha comportato che le conclusioni del ricorso, in questo caso, non si discostino dalle conclusioni proprie di un giudizio di impugnazione. Il G.A. si limita, di norma, a pronunciare dispositivi di accoglimento del ricorso, senza una individuazione specifica di quale è il bene della vita che viene accertato né di quale è la somma al pagamento della quale l’amministrazione viene condannata.

Questi dispositivi, quindi, non consentiranno un’azione di esecuzione ma solo un’azione di ottemperanza. Per il Gallo si tratta di una situazione inaccettabile: tali azioni, infatti, vengono esercitate in sede di cognizione in una forma incompiuta.

Il Codice, all’art. 40, non fa più riferimento alle conclusioni del ricorso ma, invece, ai provvedimenti chiesti al giudice: non si tratta, tuttavia, di una innovazione significativa dovendosi, semplicemente, far riferimento alle considerazioni che già prima si sono svolte.

La parte, infine, potrà avanzare istanze cautelari e istruttorie. Ai sensi dell’art. 34 cpa, si può avanzare la richiesta di nomina di un commissario ad acta già in fase di cognizione in vista dell’attuazione della sentenza.

  1. Sottoscrizione: del ricorrente, se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione, in questo caso, della procura speciale conferita a mezzo di atto pubblico o scrittura autenticata dal notaio ovvero apposta sul ricorso; in quest’ultimo caso la firma del ricorrente è autenticata dal legale.

La data della procura deve essere anteriore o contestuale a quella della notifica del ricorso.

La procura rilasciata per agire e contraddire davanti al giudice si intende conferita anche per proporre motivi aggiunti e ricorso incidentale, salvo che in essa sia diversamente disposto.

La procura può essere conferita anche unicamente per il secondo grado.

Il ricorso va redatto in tante copie quante sono le parti intimate, con l’aggiunta di una copia, detta originale, sulla quale l’ufficiale giudiziario attesterà l’avvenuta notificazione. La mancanza della sottoscrizione del ricorrente rileva solo sull’originale.

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