L’ annullabilità come regime prevalente

In relazione all’ atto amministrativo sono previsti tre vizi, ossia tre forme di invalidità: incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (ma unico è il regime che le accomuna: quello dell’ annullabilità).

L’ atto annullabile è l’ atto che, pur essendo invalido, produce i suoi effetti sino a quando non venga annullato (dal giudice amministrativo); ciò significa, quindi, che l’ atto invalido (o illegittimo) produce i suoi effetti come se fosse valido (o legittimo) sino a quando non viene eliminato. È in tal senso che si parla del cd. modo di equiparazione degli effetti dell’ atto invalido agli effetti dell’ atto valido; in tal modo, il legislatore (optando per l’ annullabilità) ha inteso contemperare le ragioni del cittadino con quelle dell’ amministrazione: conferendo al primo (il cittadino) il potere di impugnare l’ atto illegittimo, ma mantenendo nel contempo l’ efficacia di quest’ ultimo sino a quando il giudice (eventualmente adìto) non abbia accertato l’ invalidità e disposto l’ annullamento.

Se, invece, il legislatore avesse optato per il regime della nullità (atto privo di effetti), il soggetto privato avrebbe potuto sottrarsi ai comandi derivanti dall’ atto o avrebbe potuto disapplicarlo o considerarlo inesistente (come accade oggi, ad es., nell’ ordinamento americano, ove, infatti, esistono atti amministrativi nulli).

In realtà, è bene precisare che anche nel nostro ordinamento esistono provvedimenti amministrativi nulli; lo ha stabilito la Corte di Cassazione alcuni decenni fa: il Supremo Collegio ha stabilito, in particolare, che la nullità si manifesta quando l’ atto è stato emesso in carenza di potere, ossia quando l’ autorità amministrativa non si è limitata ad esercitare malamente un potere che la legge le attribuisce (atto annullabile), ma ha preteso di esercitare un potere di cui essa è carente (atto nullo).

Come è stato detto, i vizi che rendono il provvedimento amministrativo annullabile sono: l’ incompetenza, la violazione di legge e l’ eccesso di potere. Si potrebbe dire, tuttavia, che le cause di annullabilità sono riconducibili ad una sola, che è la violazione di legge, essendo le altre due (incompetenza ed eccesso di potere) delle semplici specificazioni della prima: l’ attività amministrativa, infatti, è sottoposta alla legge (principio di legalità) e la legge disciplina la competenza, i presupposti, le forme, il procedimento, il tipo di misura, gli effetti e il fine dell’ attività; sicché ogni deviazione dalla legge (cioè, ogni violazione di legge) si traduce nell’ invalidità dell’ atto finale.

L’ invalidità parziale, derivata e successiva

Due forme specifiche di invalidità-illegittimità sono l’ invalidità parziale e l’ invalidità derivata.

L’ invalidità parziale colpisce soltanto una parte dell’ atto e non l’ atto nella sua integrità; tale fenomeno ricorre, in particolare, negli atti che hanno una pluralità di contenuti e di destinatari [così, ad es., un piano regolatore comunale può essere illegittimo, e per questo può essere annullato dal giudice amministrativo, limitatamente alle previsioni che riguardano la zona di espansione dell’ abitato; allo stesso modo, una graduatoria di concorso può essere illegittima nella parte in cui in essa risulta inserito un candidato anziché un altro (il ricorrente), mentre rimane valida per gli altri dieci concorrenti in essa inclusi].

L’ invalidità derivata è, invece, una conseguenza del collegamento tra più atti o del fatto che il provvedimento amministrativo è preceduto da un procedimento: in tal modo, può accadere che il vizio di un atto preparatorio del procedimento si ripercuota sul provvedimento (così, ad es., anche se in sé ineccepibile, il provvedimento può essere viziato dal fatto che il parare obbligatorio che lo ha preceduto è stato reso da un organo in composizione irregolare, perché qualcuno dei suoi membri non era stato debitamente convocato).

Più controverso è, infine, il concetto di invalidità successiva: controverso, perché la legittimità o l’ illegittimità di un atto deve essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore nel momento in cui l’ atto viene adottato; se così non fosse, l’ autore dell’ atto sarebbe tenuto, infatti, a tener conto delle modifiche che quel quadro potrà subire in un momento successivo. Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune ipotesi nelle quali una invalidazione successiva di un atto, originariamente valido, è possibile (si pensi, ad es., alla legge retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti dell’ atto; ovvero alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in base alla quale l’ atto era stato posto in essere).

L’ incompetenza

L’ incompetenza è una forma di invalidità tipica del regime giuridico delle organizzazioni impersonali, nelle quali il potere di agire è diviso tra una pluralità di organi: in questa prospettiva, l’ incompetenza si verifica qualora un organo usurpi le competenze dell’ organo preposto.

Sotto un certo profilo, l’ incompetenza, come detto in precedenza, è solo una specie di violazione di legge: quest’ ultima, prima di stabilire i presupposti, le forme e gli effetti dell’ azione amministrativa, individua l’ autorità competente e le assegna un fine, che spesso è desumibile proprio dalla competenza (ad es., il Ministro della Sanità deve perseguire il fine della salute pubblica, il Ministro delle Attività produttive quello della promozione dello sviluppo industriale, etc.).

Sotto altro profilo, invece, l’ incompetenza ha una sua autonomia rispetto agli altri vizi dell’ azione amministrativa; partendo, infatti, dal presupposto che l’ autorità, prima di agire (e, quindi, prima di porre in essere l’ atto) deve accertare la sua competenza, l’ atto posto in essere può essere perfetto dal punto di vista del contenuto, della forma e dei fini, ma se è stato adottato da un organo incompetente è illegittimo e per tal motivo va annullato dal giudice, qualora il ricorrente ne faccia richiesta (in altri termini, non è illegittimo ciò che l’ autorità ha disposto, ma lo è il fatto che sia stata essa a disporlo).

Una volta annullato l’ atto, il giudice deve rimettere l’ affare all’ autorità competente (e quest’ ultima deciderà se non agire ovvero se agire diversamente da come ha agito l’ organo incompetente o se agire allo stesso modo); da ciò si intuisce che il giudice non può decidere di non annullare l’ atto, ritenendo che l’ autorità competente non possa agire diversamente da come ha agito l’ organo incompetente, perché così facendo egli finirebbe con il sostituirsi all’ autorità competente.

In ogni caso, è necessario sottolineare che, perché vi sia incompetenza, il potere esercitato indebitamente deve essere previsto dalla legge come potere di altro organo dello stesso ente (si pensi, ad es., al sindaco che si sostituisce al consiglio comunale) o di altro ente (si pensi, ad es., al sindaco che adotta un provvedimento di competenza del prefetto).

Esorbita, invece, dall’ area dell’ incompetenza l’ esercizio di un potere che la legge non attribuisce ad alcuna autorità amministrativa (in questo caso, infatti, vi è carenza di potere, che dà luogo alla nullità dell’ atto).

La violazione di legge

La violazione di legge è il vizio tipico dell’ azione amministrativa. L’ accertamento di tale violazione è molto semplice: il giudice (o l’ organo di controllo di legittimità o la stessa autorità amministrativa in sede di riesame) confronta la fattispecie concreta del provvedimento con la fattispecie normativa; in conseguenza di tale confronto, ogni difformità (dalla fattispecie legale) darà luogo ad un vizio di legittimità.

Appare utile sottolineare comunque che, nella prassi del procedimento amministrativo, il ricorrente suole dedurre, insieme al vizio di violazione di legge, anche il vizio di falsa applicazione della legge: questa consiste nell’ applicazione della norma ad un destinatario diverso da quello che essa contempla [si pensi, ad es., all’ applicazione ad ex combattenti, dipendenti da imprese private, di una legge (L. 336/70) che, invece, è rivolta a beneficio dei soli ex combattenti che sono impiegati pubblici].

L’ eccesso di potere

Il terzo dei tre vizi di legittimità del provvedimento amministrativo è l’ eccesso di potere. Esso equivale allo sviamento di potere, cioè all’ uso del potere amministrativo per una finalità diversa da quella stabilita dalla legge (incorre, ad es., in eccesso di potere il sindaco che ordina la demolizione di un manufatto edilizio vicino alla propria abitazione, non perché sia stato realizzato in violazione della normativa edilizia, ma semplicemente per godere, dal proprio appartamento, di una veduta più ampia: in questo caso, il potere amministrativo affidato dalla legge al sindaco viene utilizzato a fini privati).

Ma lo sviamento di potere ricorre anche quando la finalità perseguita dall’ autorità sia anch’ essa una finalità pubblica, ma diversa da quella per la quale il potere le è stato attribuito (riproponendo l’ esempio avanzato in precedenza, l’ ordine di demolizione è illegittimo anche nel caso in cui il sindaco intenda, con esso, dare attuazione alla disciplina posta dal nuovo piano regolatore, che prevede in quella zona l’ inedificabilità totale; in questo modo, infatti, il sindaco cerca di ottenere con l’ ordine di demolizione un risultato che può essere perseguito solo mediante un provvedimento espropriativo e relativo indennizzo).

Impostata così la questione, si capisce che l’ eccesso di potere è un vizio tipico dei poteri vincolati nel fine; di conseguenza, l’ accertamento di tale vizio implica un confronto tra il fine concretamente perseguito e il fine che la legge ha imposto all’ autorità di perseguire, attribuendole quel potere. Questo confronto, tuttavia, non è agevole, perché esso comporta un’ indagine sulle intenzioni dell’ agente; indagine che, tra l’ altro, è ammessa soltanto quando il vero scopo dell’ agente risulti con chiarezza dall’ atto impugnato o da qualcuno degli atti preparatori ovvero da dichiarazioni rese in altra sede. È proprio per questo motivo, allora, che (in presenza di tali difficoltà) il Consiglio di Stato ha formulato la figura sintomatica dell’ eccesso di potere, in virtù della quale è stato affermato che, anche se l’ eccesso non risulta con chiarezza dalla documentazione, è comunque possibile che da quest’ ultima emergano sintomi del vizio, che lasciano presumere la sua esistenza (a meno che l’ amministrazione non dimostri il contrario). Sintomi dell’ eccesso di potere sono oggi considerati: la disparità di trattamento, la manifesta ingiustizia, la contraddizione con precedenti provvedimenti, nonché il difetto, l’ insufficienza e la contraddittorietà della motivazione. Analizziamoli singolarmente.

L’ amministrazione incorre nella disparità di trattamento quando applica misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna giustificazione: ad es., due impiegati incorrono nella stessa infrazione (furto di francobolli): ad uno viene inflitta la sanzione disciplinare della censura (la più lieve), mentre all’ altro la destituzione (la più grave).

Allo stesso genere appartiene l’ ingiustizia manifesta, che però (a differenza della disparità di trattamento), non richiede un confronto tra due fattispecie ed i rispettivi trattamenti: riproponendo l’ esempio di prima, sarebbe manifestamente ingiusta la destituzione di un impiegato sorpreso mentre si appropria di alcuni francobolli (vi è sproporzione, cioè, tra il fatto e la misura applicata).

Si ha, invece, contraddittorietà con precedenti provvedimenti quando l’ autorità, discostandosi da una prassi, senza alcun motivo, applica in un caso una misura diversa da quelle in precedenza applicate: ad es., un sindaco rifiuta l’ autorizzazione ad un mutamento di destinazione d’ uso (poniamo: da residenza ad ufficio), quando, nella stessa zona, richieste di identico contenuto erano state, in precedenza, tutte accolte.

Il travisamento dei fatti ricorre quando l’ autorità suppone l’ esistenza di un fatto inesistente o, viceversa, suppone l’ inesistenza di un fatto esistente: ad es., il sindaco rifiuta un’ autorizzazione all’ esercizio del commercio perché convinto erroneamente che la zona sia satura di esercizi del genere.

Si ha omesso o insufficiente accertamento o omessa o insufficiente istruttoria quando i presupposti richiesti dalla legge per l’ adozione del provvedimento non sono stati acclarati (comprovati) o lo sono stati in modo insufficiente: ad es., il sindaco emette un provvedimento di urgenza, intimando la demolizione di un edificio pericolante, avvalendosi del suo potere di ordinanza in materia di edilizia, sanità ed incolumità pubblica, sulla sola scorta della denuncia di un vicino (senza che l’ ufficio tecnico comunale o i vigili urbani abbiano proceduto alla necessaria verifica).

Si ha illogicità manifesta quando vi è incongruenza tra la motivazione ed il dispositivo ovvero quando vi sono due motivazioni in conflitto tra di loro ovvero ancora quando risulta violata una regola logica: è illogica, ad es., la previsione di un piano regolatore che, sulla premessa di un forte incremento demografico del comune, riduca il perimetro dell’ area destinata a residenze.

L’ eccesso di potere può anche consistere nella omessa valutazione comparativa degli interessi in gioco: ad es., l’ amministrazione dei beni culturali e ambientali nega l’ autorizzazione ad aprire una cava, sul presupposto che la zona contenga beni archeologici non ancora portati alla luce, impedendo in tal modo la realizzazione di una diga capace di portare acqua potabile ad una zona che ne ha bisogno (in questo caso, un interesse pubblico ipotetico viene privilegiato rispetto ad un interesse collettivo di immediata evidenza).

Una classica ipotesi di eccesso di potere è, poi, il vizio di motivazione (omessa o insufficiente motivazione): si pensi, ad es., ad un atto di annullamento d’ ufficio di un precedente atto che non faccia menzione dell’ interesse pubblico che giustifica il ritiro.

Di recente introduzione è, infine, il vizio derivante dalla violazione del principio di proporzionalità (si tratta di una figura mutuata dalla giurisprudenza amministrativa tedesca): esempio classico è quello di una dichiarazione di pubblica utilità che investa un’ area di gran lunga più vasta di quella necessaria per la realizzazione dell’ opera pubblica (vi è, cioè, una sproporzione tra il sacrificio inflitto al privato e le richieste dell’ interesse pubblico).

I vizi formali e i vizi sostanziali

L’ invalidità, determinata da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere, espone l’ atto all’ annullamento da parte del giudice amministrativo (art. 21 octies, co. 1 L. 241/90, come modificato dalla L. 15/05), sempre che l’ atto venga impugnato entro i termini stabiliti dalla legge. È importante specificare, però, che se ricorrono anche i presupposti per l’ annullamento d’ ufficio (se, cioè, oltre all’ invalidità, concorrono anche ragioni di pubblico interesse, da contemperare con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati) il provvedimento invalido può essere annullato anche dall’ amministrazione.

L’ art. 21 octies, co. 2 prevede, invece, due casi nei quali il provvedimento, ancorché invalido (perché posto in essere in violazione di legge), non può essere annullato né dal giudice amministrativo, né dall’ amministrazione.

Il primo caso si verifica quando, pur essendo stato l’ atto adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, sia palese che il suo contenuto, a causa della sua natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso.

Il secondo caso, invece, è quello del provvedimento (vincolato o discrezionale) che l’ amministrazione ha posto in essere, omettendo di comunicare all’ interessato l’ avvio del procedimento: in una simile ipotesi il giudice non può annullare l’ atto, qualora l’ amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto.

Le due ipotesi si distinguono, oltre che per la diversa natura del provvedimento, anche per la diversa modalità con la quale l’ annullabilità va negata: nel primo caso, infatti, deve essere palese che il contenuto dell’ atto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato; nel secondo caso, invece, deve essere l’ amministrazione a dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da quello effettivo (a ben vedere, però, l’ onere della prova a carico dell’ amministrazione è soltanto apparente, perché questa, nella maggior parte dei casi si limiterà ad affermare che, anche se fosse stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, il provvedimento avrebbe avuto identico contenuto; ciò vuol dire, quindi, che l’ onere della prova ricade quasi sempre sul ricorrente).

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