Una delle più importanti operazioni effettuate dal legislatore canonico è la traduzione sul piano del diritto positivo di una categoria del tutto estranea alla tradizione culturale del giurista: la categoria di “popolo di Dio” assunta dalla codificazione canonica del 1983. All’inizio il giurista vedeva con diffidenza la trasposizione nel codice di una categoria di derivazione biblico – patristica, eppure tale categoria fu addirittura assunta tra i principi fondamentali del diritto costituzionale della Chiesa: Libro II del codice canonico del 1983, le norme relative ai fedeli, alla costituzione gerarchica della Chiesa, agli istituti di vita consacrata ed alle società di vita apostolica, è intitolato “De populo Dei”.

La riflessione dottrinale e l’esperienza giuridica hanno messo in evidenza le potenzialità sul piano giuridico, infatti la nozione di popolo di Dio non nega la dimensione giuridica della Chiesa e contribuisce a porre in evidenza le particolarità che distinguono l’ordinamento giuridico della Chiesa dagli ordinamenti giuridici secolari. Il termine “popolo” fa riferimento all’elemento sociale; il riferimento a Dio sta a significare che non si tratta di un popolo qualunque, ma di un popolo costituitosi in seguito alla chiamata divina, nella quale erano predeterminate le finalità, i mezzi con cui perseguirle e l’autorità costituita. La Chiesa, quindi, è di istituzione divina. Con l’assunzione di questa categoria, il legislatore canonico applica l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II (Lumen gentium). Questa categoria comporta una serie di conseguenze: innanzitutto il carattere strumentale o funzionale che il diritto della Chiesa ha, connesso con la dimensione storica ed escatologica di un popolo che vive nella storia ma è chiamato a trascenderla.

L’universalità di questo popolo, aperto a tutti, ciò comporta per il diritto la singolarità data dal riconoscimento di diritti anche in capo a chi non è ancora incorporato nella Chiesa (can. 96); infatti ai non battezzati e ai catecumeni sono riconosciuti alcuni diritti, ad esempio il diritto di libertà religiosa (can. 748) o il diritto all’istruzione cristiana (can. 788) o ancora il diritto a ricevere il battesimo (can. 843). L’unità di questo popolo, che non nasce da fattori sociologicamente ricorrenti nelle altre società, ma dalla fede e dalla partecipazione alla vita divina attraverso l’azione sacramentale; questo particolare fondamento dà ragione delle diverse condizioni personali e discipline giuridiche. La nozione di popolo di Dio dà ragione dell’eguaglianza sostanziale e della diversità funzionale che caratterizza la condizione giuridica delle persone: uguaglianza sul piano della fede, del battesimo, della comune dignità di redenti; diversità sul piano dei carismi, dei ministeri, dell’esperienza di fede, sia pure nel quadro di una comune responsabilità nella missione della Chiesa, sulla corresponsabilità di tutti i componenti del popolo di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Dalla diversità sussistente tra i fedeli, sul piano funzionale discende di conseguenza la diversità di diritti e di doveri.

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