Il ricorso contro il silenzio

Lo schema sopra descritto conosce numerose varianti. La prima riguarda l’ oggetto dell’ impugnazione: infatti, la legge fa riferimento ad atti o provvedimenti dell’ autorità amministrativa; e, tuttavia, l’ interessato può essere danneggiato non da un atto, ma da una omissione (ad es., l’ amministrazione che rimane inerte su una richiesta di autorizzazione o di concessione impedisce al privato di ottenere ciò a cui aspira).

Al fine di risolvere il problema, pertanto, il d.l. 35/05, conv. in L. 80/05, ha conferito all’ inerzia dell’ amministrazione il valore di assenso. È stato stabilito, infatti, che nei procedimenti ad istanza di parte, per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell’ amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, se l’ amministrazione, entro il termine per la conclusione del procedimento, non comunica il diniego o non indice una conferenza di servizi.

È necessario sottolineare, però, che questa regola non trova applicazione per gli atti e per i procedimenti che riguardano il patrimonio culturale o paesaggistico, l’ ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza o l’ immigrazione, la salute e l’ incolumità pubblica: in tutti questi casi, una volta scaduto il termine per la conclusione del procedimento, l’ inerzia dell’ amministrazione equivale a silenzio-rifiuto. Questo silenzio, tuttavia (così come disposto dalla novella introdotta dal d.l. 35/05), può essere impugnato immediatamente davanti al giudice amministrativo senza necessità di notificare all’ amministrazione inadempiente un atto di diffida. Il ricorso, in questo caso, può essere proposto dopo che è decorso il termine entro il quale deve concludersi il procedimento (di regola 90 gg.) e comunque non oltre 1 anno dalla scadenza di detto termine.

La principale novità consiste, però, nel fatto che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’ istanza: mentre, infatti, fino ad ora il Tar, adìto con il ricorso contro il silenzio, si limitava ad accertare che l’ amministrazione avesse realmente un obbligo di provvedere (e che, quindi, a tale obbligo non avesse adempiuto), oggi invece può valutare se il provvedimento richiesto spetti effettivamente al ricorrente o meno. In tal modo, il giudice può sostituirsi all’ amministrazione o, comunque, vincolarla strettamente, accertando la fondatezza della pretesa del privato (da tale accertamento positivo deriva, infatti, l’ obbligo dell’ amministrazione di rilasciare il provvedimento).

Da quanto detto, si evince chiaramente che la legge ha predisposto una tutela rafforzata contro il silenzio dell’ amministrazione. A questo punto, però, è necessario porsi un quesito fondamentale: come si giustifica una tutela così efficiente contro il silenzio quando contro il provvedimento negativo esplicito il ricorrente deve ricorrere al procedimento ordinario e subire i suoi tempi lunghi senza poter ottenere dal giudice una pronuncia che accerti la fondatezza della sua pretesa? Partendo da questa domanda, il Consiglio di Stato ha ridimensionato la portata dei poteri del giudice, stabilendo che l’ accertamento della fondatezza dell’ istanza sulla quale l’ amministrazione ha mantenuto il silenzio è ammesso in soli due casi:

• quando l’ atto richiesto è dovuto o vincolato (e non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale);

• quando l’ istanza è del tutto infondata, sicché sarebbe irragionevole obbligare l’ amministrazione a provvedere, dal momento che l’ atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.

Quando, invece, l’ atto richiesto è discrezionale, il giudice non può compiere la valutazione di fondatezza dell’ istanza, perché facendolo si sostituirebbe all’ amministrazione (e compirebbe, così, un’ operazione in contrasto con il principio della separazione dei poteri, che è eccezionalmente ammessa quando la legge attribuisce anche una giurisdizione nel merito: ma non è questo il caso).

I motivi aggiunti

Dal momento che i provvedimenti amministrativi sono, in numerosi casi, concatenati tra di loro, è facile che un primo ricorso ne generi altri: così, ad es., una volta annullata la nomina del presidente di un’ azienda speciale comunale, il sindaco procede, con separato atto, alla nomina di un’ altra persona; in tal caso, colui che ha proposto ricorso contro l’ annullamento della sua nomina ha l’ onere di ricorrere contro la nomina di chi è chiamato a sostituirlo, perché se non lo fa rischia di vedere dichiarato inammissibile il suo ricorso per carenza sopravvenuta di interesse.

In ogni caso, è bene precisare che, in presenza di una molteplicità di ricorsi, la L. 205/00, allo scopo di evitare una dispersione di giudizi ed una pluralità di sentenze, ha stabilito che tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso devono essere impugnati con la proposizione dei motivi aggiunti (in questi casi, cioè, il ricorrente aggiunge nuovi motivi al ricorso originario, anziché proporre un nuovo ricorso).

I motivi aggiunti sono ammessi anche (ed è questa la nozione originaria) quando, attraverso la documentazione prodotta in giudizio dalle altre parti, il ricorrente venga a conoscenza di nuovi vizi del provvedimento impugnato (così, ad es., una volta che l’ amministrazione ha depositato il testo del parere che ha preceduto l’ atto impugnato, il ricorrente si accorge che questo è difforme dal parere, senza che il dissenso sia motivato; la difformità viene rilevata soltanto in questo momento perché il contenuto del parere era sconosciuto al ricorrente).

I motivi aggiunti vanno proposti entro il termine di 60 gg., a meno che non ricorra l’ ipotesi (sopra considerata) della conoscenza postuma di un vizio dell’ atto impugnato: in tal caso, infatti, il termine decorre dal momento in cui il ricorrente abbia acquisito la piena conoscenza del documento dal quale risulta il vizio.

È necessario sottolineare, infine, che il d.lgs. 104/10 ha affiancato ai motivi aggiunti anche le domande nuove, purché siano connesse a quelle già proposte: si pensi, ad es., alle nuove voci di danno risarcibile, che emergono dalla documentazione prodotta dall’ amministrazione.

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