I criteri di imputazione della responsabilità

L’ art. 28 Cost., sottoponendo la responsabilità degli agenti (e, quindi, anche quella della pubblica amministrazione) alle leggi civili, enuncia il principio della piena soggezione della pubblica amministrazione alle forme di responsabilità civile previste dal codice civile.

Ora, come sappiamo, il codice prevede diverse forme di responsabilità civile, quali: la responsabilità fondata sulla colpa (dolo o colpa, ex art. 2043), la responsabilità, per i danni cagionati dall’ incapace, di chi è tenuto alla sorveglianza (art. 2047), la responsabilità dei genitori, tutori, precettori e maestri d’ arte (art. 2048), la responsabilità dei padroni e committenti (art. 2049), la responsabilità per l’ esercizio di attività pericolose (art. 2050), la responsabilità per il danno cagionato da cose in custodia, da animali, da rovina di edificio o da circolazione di veicoli (artt. 2051-2054).

Ora, per la vastità dei suoi compiti e per l’ ampiezza dei suoi beni, è chiaro che la pubblica amministrazione (fatta eccezione per la responsabilità dei genitori) è suscettibile di incorrere in ciascuna di dette forme di responsabilità: essa gestisce, ad es., i reparti neurologici degli ospedali pubblici e, quindi, deve sopportare i danni prodotti a terzi da parte di persone incapaci di intendere e di volere; amministra scuole e, quindi, risponde (come gli insegnanti) dei danni cagionati dagli allievi; esercita attività pericolose, come il servizio ferroviario, e pertanto deve rispondere degli eventuali danni cagionati; è titolare di beni e, quindi, è tenuta alla loro custodia (si pensi, ad es., ai danni cagionati dalla cattiva manutenzione delle strade).

Ovviamente, la forma più frequente di responsabilità della pubblica amministrazione è quella prevista dall’ art. 2043 c.c. (cd. responsabilità aquiliana o extracontrattuale), ai sensi del quale il fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno (è bene precisare che la questione più controversa, nell’ applicazione di questo principio alla pubblica amministrazione, è se per danno ingiusto debba intendersi solo quello conseguente alla lesione di un diritto soggettivo o anche quello derivante dalla lesione di un interesse legittimo).

La responsabilità nell’ esercizio di una potestà amministrativa

In applicazione dei princìpi civilistici, un illustre studioso del diritto amministrativo (Guicciardi) ha affermato che, affinché si possa parlare di una responsabilità della pubblica amministrazione, debbono ricorrere le seguenti condizioni:

• l’ esistenza del fatto o dell’ atto, delle cui conseguenze giuridiche si disputa;

• l’ imputabilità dell’ atto o del fatto all’ amministrazione (piuttosto che alla persona del funzionario che lo ha posto in essere);

• l’ illiceità dell’ atto o del fatto;

• l’ esistenza di un danno giuridico, consistente nella privazione, diminuzione o alterazione di un diritto soggettivo del cittadino;

• l’ esistenza di un rapporto di causalità tra l’ atto illecito e il danno prodotto (con esclusione, quindi, dei casi in cui il danno sia derivato da cause di forza maggiore o dal fatto stesso del danneggiato).

Questo schema, elaborato in applicazione dell’ art. 2043 c.c., subisce, tuttavia, delle alterazioni nei casi in cui la responsabilità non dipenda più dalla colpa (qualunque fatto doloso o colposo), ma da altri fattori: basti osservare, infatti, che in alcuni di questi casi la colpa diventa del tutto irrilevante (si pensi, ad es., alla responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei commessi, ex art. 2049 c.c., che dà luogo ad una vera e propria responsabilità oggettiva); in altri casi, invece, viene in rilievo il solo rapporto di causalità (artt. 2051-2052 c.c.: si pensi, ad es., ai danni cagionati da cose in custodia o da animali; a ben vedere, in queste ipotesi, la colpa non è più una qualificazione del fatto, ma del soggetto che è legato da un rapporto di custodia o di proprietà con la cosa o con l’ animale dannoso); in altri casi, infine, la colpa che conta non è quella dell’ autore del fatto dannoso (ad es., del minore, dell’ incapace o dell’ alunno), ma quella di chi ha il dovere di vigilarlo (artt. 2047-2048 c.c.).

Lo stesso discorso può essere fatto in relazione all’ ente pubblico (amministrazione), perché non v’è nulla di peculiare che lo riguardi nel sistema degli artt. 2047 ss. c.c. Invero, l’ unica vera particolarità, a proposito della responsabilità della pubblica amministrazione, è ravvisabile quando il fatto dannoso, di cui all’ art. 2043 c.c., consiste in un provvedimento amministrativo; in questi casi, infatti, ci si pone il seguente quesito: se il fatto doloso o colposo coincide con l’ esercizio di una potestà amministrativa, l’ amministrazione è tenuta a risarcire il danno ingiusto?

La domanda proposta non trova una semplice risposta, anche perché il problema è reso ancor più complesso a causa della costruzione dell’ efficacia del provvedimento amministrativo e dell’ assetto della tutela giurisdizionale che è connesso a tale costruzione. Alcuni esempi potranno rendere bene l’ idea: una espropriazione illegittima danneggia il proprietario; così come il diniego di un’ autorizzazione danneggia il soggetto che ne ha fatto richiesta.

Nel primo caso il privato danneggiato non potrà rivolgersi al giudice civile per il risarcimento dei danni, ex art. 2043 c.c., ma dovrà adire il giudice amministrativo per ottenere l’ annullamento del decreto di espropriazione illegittimo; solo dopo aver conseguito questo risultato potrà rivolgersi al giudice civile per ottenere la restituzione dell’ immobile (se questo non è stato irreversibilmente trasformato) o il risarcimento danni. Il transito per due giurisdizioni è reso obbligatorio dal fatto che, poiché il decreto di espropriazione degrada il diritto di proprietà (diritto soggettivo), il privato potrà azionare solo l’ interesse legittimo dinanzi al giudice amministrativo; una volta che questi, annullando l’ atto, avrà ricostituito l’ originaria situazione di diritto soggettivo, di tale diritto potrà essere chiesto il risarcimento danni dinanzi al giudice civile.

Diverso, invece, è il caso del diniego di autorizzazione amministrativa, perché, secondo l’ opinione dominante, il privato vanta un interesse, non un diritto all’ autorizzazione; sicché il rifiuto di questa non dà titolo ad un’ azione risarcitoria dinanzi al giudice civile. Anche in questa ipotesi, quindi, il privato si rivolgerà al giudice amministrativo; solo che l’ eventuale annullamento del diniego di autorizzazione non aprirà l’ accesso alla giurisdizione civile per un’ azione di danni (a differenza del proprietario espropriato, infatti, il privato, in questo caso, continua a vantare un interesse legittimo).

Il danno da lesione di un interesse legittimo

Dalle considerazioni precedenti emerge, quindi, l’ importanza che per il tema in esame riveste la questione degli interessi legittimi; interessi nei confronti dei quali, prima della fondamentale sent. 500/99 della Corte di Cassazione, era disconosciuto qualsiasi tipo di risarcibilità.

La situazione, più precisamente, era posta in questi termini:

• è risarcibile il diritto soggettivo che viene leso da un fatto illecito che l’ amministrazione ha posto in essere nella sua capacità di diritto privato o comunque al di fuori dell’ esercizio di una potestà amministrativa;

• non è risarcibile il diritto soggettivo che viene degradato ad interesse legittimo dal provvedimento amministrativo (lo diventa solo quando il provvedimento viene annullato dal giudice amministrativo con una sentenza che restituisce alla situazione soggettiva del privato consistenza di diritto soggettivo).

Da queste considerazioni si deduceva, pertanto, che non era risarcibile, di per sé, l’ interesse legittimo: sia che esso fosse nato dalla compressione del diritto soggettivo, sia che esso ab origine si fosse configurato come interesse legittimo (soprattutto come interesse all’ adozione di un provvedimento favorevole).

Questo dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi ha, tuttavia, cominciato ad essere riconsiderato con il d.lgs. 80/98; difatti, la legge delega (art. 11, co. 4, L. 59/97) aveva stabilito che, nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici, al giudice amministrativo venivano devolute le controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno.

Interpretando in modo estensivo la delega, il Governo attribuì alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici (artt. 33 e 34 d.lgs. 80/98), stabilendo, all’ art. 35, che in queste (materie) il giudice dispone il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica (questa lettura, però, come spiegherà la Consulta nella sent. 292/00, si risolve in un eccesso di delega).

In ogni caso, nel solco di questa indicazione (fornita dalla legislazione del 1997/98), la Corte di Cassazione, attraverso una sentenza divenuta celeberrima (sent. 500/99), ha optato per una completa rivisitazione della posizione tradizionale della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi. La Corte, in particolare, muovendo dalla premessa che l’ art. 2043 c.c. collega l’ obbligo di risarcimento al fatto di aver colpevolmente cagionato un danno ingiusto, senza far menzione della situazione soggettiva incisa (diritto soggettivo o interesse legittimo), è giunta alla conclusione che qualunque pregiudizio (danno), arrecato alla sfera altrui senza giustificazione, obbliga colui che lo ha cagionato a risarcirlo, anche quando soggetto danneggiante è una pubblica amministrazione e il danno è arrecato ad un interesse legittimo.

Dopo aver enunciato quest’ importante principio, però, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno fissare dei paletti, perché consapevole delle difficoltà alle quali sarebbe stata esposta la finanza pubblica (e, in ultimo, il contribuente) nel caso di un risarcimento generalizzato.

Il primo limite posto dalla Corte riguarda l’ elemento soggettivo dell’ illecito posto in essere dall’ amministrazione, che sia lesivo di un interesse legittimo: con la sentenza 500/99, la Corte (a differenza dei precedenti orientamenti giurisprudenziali) segnala che non basta la sola illegittimità dell’ atto per desumere la colpevolezza dell’ agente, ma è necessaria la sussistenza di altri due presupposti e cioè:

• che siano violati i princìpi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.);

• e che tali violazioni siano imputabili non alla persona fisica che ha posto in essere l’ atto, ma all’ amministrazione, cui essa appartiene.

È bene precisare, però, che la giurisprudenza amministrativa (in particolare, il Consiglio di Stato), consapevole della fragilità dell’ argomentazione del Supremo Collegio in tema di elemento soggettivo, tende oggi a valorizzare una nozione oggettiva di colpa (molto vicina a quella tradizionale, che fa della colpevolezza un elemento della illegittimità dell’ atto).

Il secondo limite posto dalla Corte di Cassazione riguarda, invece, la nozione di danno ingiusto, in quanto conseguenza dell’ esercizio del potere amministrativo: tale nozione, ad avviso del Supremo Collegio, ha una diversa consistenza, a seconda che la lesione concerna un interesse oppositivo o pretensivo. Nel primo caso il danno è prospettabile, perché l’ interesse oppositivo (l’ interesse, cioè, a che non venga adottato un provvedimento restrittivo: si pensi, ad es., all’ interesse del proprietario a fronte del potere espropriativo) presuppone l’ esistenza di un bene che già rientra nella sfera giuridica del titolare (nel nostro esempio: la proprietà); sicché il provvedimento lesivo (l’ esproprio) toglie quel bene.

Nel secondo caso (interesse pretensivo) il bene, invece, non appartiene ancora al privato, ma costituisce l’ oggetto del suo desiderio (desiderio che può essere appagato con l’ adozione del provvedimento: si pensi, ad es., al caso in cui il privato chieda il rilascio di un’ autorizzazione); in tale ipotesi, l’ atto lesivo (ad es., l’ atto che nega l’ autorizzazione) impedisce all’ interessato di conseguire quel bene desiderato (cosa che è ben diversa dal togliergli un bene già suo).

A giustificazione di quest’ orientamento, la Cassazione ha tenuto a precisare che ciò che risulta decisivo, ai fini del risarcimento del danno, è che l’ interessato possa far valere un bene della vita, ossia un bene che forma oggetto di un interesse materiale, rispetto al quale l’ interesse legittimo svolge una funzione strumentale; in tale logica, pertanto (prosegue la Corte) l’ interesse pretensivo non è risarcibile, perché la sua soddisfazione dipende da una scelta discrezionale dell’ amministrazione (che deve decidere, ad es., se concedere o meno l’ autorizzazione); nella stessa direzione il Consiglio di Stato, il quale ha affermato che, qualora accordasse il risarcimento, il giudice si sostituirebbe all’ amministrazione con una indebita ingerenza nella sua discrezionalità.

Sempre in relazione all’ interesse pretensivo, lo stesso Consiglio di Stato ha, però, sottolineato che, qualora la soddisfazione della pretesa dell’ interessato sia collegata ad un’ attività vincolata della pubblica amministrazione, il risarcimento è dovuto nel caso in cui il giudice, attraverso un giudizio prognostico, accerti che, in assenza dell’ illecito, il provvedimento richiesto avrebbe dovuto essere rilasciato.

Proprio in questa alternativa (risarcibilità-irrisarcibilità dell’ interesse pretensivo) si colloca il discorso sulla cd. perdita di chance: infatti, il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che la chance rappresenta la concreta possibilità di conseguire un risultato utile, di cui non è, però, dimostrabile la futura realizzazione, per via di un fatto che ha interrotto una serie di eventi idonei ad assicurare un vantaggio, ha stabilito che tale perdita di chance è risarcibile qualora, in assenza dell’ illecito, vi era una possibilità superiore al 50% che l’ evento favorevole si verificasse: così, per fare un esempio, se il concorrente secondo classificato in una gara d’ appalto di lavori pubblici aveva la concreta possibilità di aggiudicarsi l’ appalto (ove, ad es., non fosse stato ammesso il primo classificato, sfornito dei requisiti prescritti dal bando), la sua perdita di chance deve essere risarcita.

Detto questo, è importante sottolineare, in conclusione, che il disegno volto ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità degli interessi legittimi è stato completato con la L. 205/00, la quale invero ha ripreso le disposizioni contenute nel citato d.lgs. 80/98: tali norme, che (come sappiamo) avevano attribuito al giudice amministrativo il potere di risarcire il danno ingiusto cagionato dall’ amministrazione nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici, sono state travolte per eccesso di delega dalla sent. 292/00 della Corte cost.

Nonostante ciò, il Parlamento pochi giorni dopo questa pronuncia ha convalidato le disposizioni di quel decreto: ed infatti, l’ art. 7 L. 205/00 stabilisce espressamente che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.

Ma la vera rivoluzione è realizzata attraverso un’ altra disposizione della stessa legge, nella quale si legge che il Tribunale amministrativo regionale, nell’ ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’ eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali [ciò significa, in altri termini, che la previsione del risarcimento, accordato dal giudice amministrativo, non è più limitata alle materie di giurisdizione esclusiva (vale a dire, ai diritti soggettivi che, in quelle materie, sono sottoposti alla cognizione del giudice amministrativo), ma viene estesa all’ intera giurisdizione amministrativa (e, quindi, alla giurisdizione di legittimità, che è istituita a protezione degli interessi legittimi)].

In tal modo, il legislatore del 2000 ha compiuto una duplice operazione: da un lato, ha riconosciuto espressamente la risarcibilità degli interessi legittimi; dall’ altro, ha attribuito al giudice amministrativo sia la tutela di annullamento che quella risarcitoria (sottraendo quest’ ultima al giudice ordinario).

Il danno da ritardo

Il cd. danno da ritardo è il danno che l’ amministrazione causa al privato interessato quando rimane inerte di fronte ad una richiesta di provvedimento favorevole ovvero quando la stessa protrae, al di là dei termini previsti, un procedimento iniziato d’ ufficio, il cui esito è potenzialmente lesivo per il privato.

Come si può notare, a differenza delle ipotesi in precedenza esaminate, in questo caso la fonte del pregiudizio non è l’ esercizio del potere amministrativo, ma il suo mancato esercizio, che lascia il cittadino in uno stato di incertezza sulle sorti del bene della vita che mira ad ottenere (attraverso l’ emanazione del provvedimento favorevole) o a conservare (e la cui esistenza è minacciata dal procedimento in corso).

Ora, questo stato di incertezza, causato dal comportamento dell’ amministrazione (che omette di provvedere nel termine di 90 giorni previsti dall’ art. 2, L. 241/90), può, ovviamente cagionare al privato gravi pregiudizi economici, a prescindere dall’ esito del procedimento: così, ad es., l’ amministrazione che illegittimamente ritarda nel provvedere sulla richiesta di autorizzazione all’ apertura di un esercizio commerciale causa un danno al privato, sia nel caso in cui, alla fine, l’ autorizzazione venga rilasciata, sia nel caso in cui venga negata.

Nel primo caso, il danno deriva dal non aver potuto tempestivamente intraprendere l’ attività (e, quindi, nel mancato guadagno nel periodo in cui l’ amministrazione è rimasta inerte); nel secondo caso, invece, il danno deriva dal fatto che, in attesa di sapere se poteva intraprendere l’ attività soggetta ad autorizzazione, il richiedente ha sostenuto dei costi (ha dovuto, ad es., tenere libri contabili, disporre della liquidità necessaria all’ avviamento dell’ attività, etc.).

In entrambi i casi, com’è facilmente intuibile, la causa del danno è l’ illegittima inerzia dell’ amministrazione.

Richiedi gli appunti aggiornati
* Campi obbligatori

Lascia un commento