La responsabilità civile oggi non trova più disciplina solo nel Codice civile: il legislatore è intervenuto aggiungendo figure nuove ora sotto il profilo del bene tutelato ora per l’individuazione di nuovi soggetti responsabili: si pensi, rispettivamente, al danno all’ambiente ed alla responsabilità del produttore.

Il diritto vivente nella responsabilità civile mette in evidenza il suo esserci e la sua ragione di essere.

Questo ripropone il problema della legittimazione del diritto giurisprudenziale e cioè dei limiti entro i quali quest’ultimo è autorizzato a dare ascolto alle istanze sociali di cui la legge non ha tenuto conto.

E la risposta non è nel senso di una carenza di legittimazione: perché se questa, non potendo venire dalla legge, con la quale anzi nella nostra ipotesi il diritto giurisprudenziale contrasta, viene dai fatti, c’è già, come dimostra il fatto che nessuno gridi all’invasione istituzionale quando si propongono o si adottano veri e propri salti rispetto alla linea segnata dal legislatore.

La questione che si pone prima fra tutte è quella relativa all’ingiustizia del danno, essendo quest’ultima il luogo privilegiato della funzione incrementativi svolta dalla giurisprudenza nella responsabilità civile, da quando Stefano Rodotà ci rivelò che “danno ingiusto” sarebbe una clausola generale.

Ben da prima di quando è arrivata ad usare a propria volta il sintagma “clausola generale”, la Cassazione aveva iniziato ad attribuire all’ingiustizia un significato diverso da quello inoculatovi dal legislatore.

Idealmente possiamo individuare due poli:

a. la sentenza a Sezioni unite 174/1971 (caso Meroni), la quale disse l’ingiustizia essere costituita non più solo dalla lesione dei diritti assoluti ma anche di quelli di credito;

b. la sentenza 500/1999, che ha proclamato la risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo.

È nella 500/1999 che la Cassazione ha ritenuto di non poter fare a meno della clausola generale, ma sbagliando, perché il dibattito dottrinale tra sostenitori e non della clausola generale non identificava i primi con chi sosteneva l’oltre del diritto soggettivo ed i secondi con gli strenui difensori di quest’ultimo come categoria di identificazione dell’ingiustizia: eravamo già tutti d’accordo che l’ingiustizia stava oramai oltre la lesione dei soli diritti soggettivi.

Io ho sempre parlato di situazione soggettiva di mero potere come qualificazione sufficiente di rilevanza, come indice percepibile nel diritto positivo della protezione accordata ad un interesse.

Solo il risarcimento del danno meramente patrimoniale, proprio in quanto non presuppone la lesione di un interesse tutelato, segna la differenza tra l’accettazione e la ripulsa della clausola generale.

In questo infatti consiste la clausola generale: nel potere del giudice di ritenere meritevole di risarcimento una perdita patrimoniale che pur non sia ancorata ad una situazione soggettiva, cioè ad un interesse già riputato meritevole di tutela dall’ordinamento.

La Cassazione, la quale in questi anni ha applicato l’ingiustizia come una clausola generale, sul piano formale ha però continuato ad identificarla con la lesione di diritti, nominati come se fossero già riconosciuti dall’ordinamento, mentre in realtà essi venivano di volta in volta ad esistenza.

Questi diritti di creazione giudiziale non si distinguono da quelli legislativamente posti perché quando diventano precedente fungono da prius di successive pronunce, così come accadrebbe se fossero di fonte legislativa.

Certo non sono mancati i casi di giurisprudenza evidentemente debordante: l’esempio più eclatante è l’accessione invertita (934: Opere fatte sopra o sotto il suolo): in tale caso si è verificato il paradosso del legislatore che non ha compreso il proprio ruolo, adottando i modelli più o meno contorti che la giurisprudenza aveva creati proprio a causa dell’assenza di soluzioni normative adeguate che avrebbe dovuto fornirle il legislatore.

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