Una reazione di ben altro vigore si delineò nella Chiesa intorno alla metà dell’XI secolo.

Vi fu anzitutto una possente ondata di riforma monastica.

La spiritualità benedettina, già riproposta in età carolingia da Benedetto di Aniane secondo moduli rinnovati, aveva conosciuto sin dal X secolo una singolare fioritura nel monastero di Cluny in Borgogna.

L’ascetismo della condotta e la severità della disciplina si accompagnavano con un nuovo ordinamento delle singole comunità, ora strettamente dipendenti dalla casa madre: era l’abate di Cluny a nominare i priori e gli abati dei monasteri indipendenti.

Anche monasteri antichi e potenti, come ad esempio quello di Farfa in Sabina, adottarono i metodi cluniacensi per uscire dalla crisi morale e disciplinare in cui erano caduti.

Frattanto si sviluppava in Italia un nuovo eremitismo, patrocinato da Romualdo di Ravenna e imperniato sull’istituzione di colonie autonome di anacoreti, che trovava in Camaldoli e in Fonte Avellana propri centri di diffusione.

A sua volta, il clero secolare delle cattedrali cittadine sperimentava nuove vie di rigenerazione attraverso forme di vita canonicale in comune che escludevano ogni possesso individuale dei canonici in analogia con le regole monastiche.

Negli stessi anni alcuni uomini affrontavano con gli strumenti della cultura i temi della riforma della Chiesa.

Il vescovo Wazo di Liegi criticava, intorno al 1047-1048, le intromissioni dei laici nelle nomine ecclesiastiche e le degenerazioni simoniache e concubinarie del clero.

Un monaco, esprimeva con forza, pochi anni più tardi, la convinzione che l’acquisto per denaro delle cariche ecclesiastiche dovesse ritenersi un atto di eresia, e le ordinazioni simoniache erano ritenute invalide.

Pier Damiani, rifacendosi ad una tradizione che risaliva a S. Agostino, esprimeva tesi meno radicali, ma ugualmente nette nella condanna della simonia.

Nate dalla fiamma della nuova spiritualità monastica queste posizioni quasi immediatamente trovarono una eco favorevole presso la sede papale.

A Roma l’imperatore Enrico III, deposti ben tre papi, aveva insediato sulla cattedra di Pietro il vescovo di Toul, Leone IX (1049-1054). Da questo momento, i pontefici furono scelti tra i prelati sensibili alle tesi riformistiche. Stefano IX (1057-1058) creò cardinale Pier Damiani; poco dopo, nonostante l’opposizione dell’aristocrazia romana, venne eletto papa il vescovo Gerardo di Firenze (papa Niccolò 11, 1059-1061), già monaco cluniacense, senza che l’imperatore Enrico IV, in giovanissima età, potesse esercitare alcun ruolo nella scelta.

Nel corso del suo breve pontificato, Niccolò II stabili un nuovo modo di elezione del pontefice romano affidandone la designazione ai cardinali vescovi, l’approvazione al clero romano, l’acclamazione al popolo.

In tal modo la scelta del papa era infine sottratta ai giochi di potere dell’aristocrazia romana, ma anche agli atti unilaterali di volontà degli imperatori, che negli anni avevano determinato o influenzato la nomina di tanti pontefici.

Contemporaneamente veniva espressa con nettezza la condanna nei confronti di quei laici che procedessero al conferimento di benefici ecclesiastici.

All’interno stesso del clero, le resistenze al mutamento di consuetudini ormai radicate furono vivacissime.

Nel 1059, ad esempio, allorché Pier Damiani venne inviato dal papa in missione a Milano con l’incarico di risolvere la controversia sulla simonia, che ivi opponeva l’arcivescovo Guido de Velate al movimento riformatore detto della Pataria, il clero ambrosiano favorevole a Guido tentò di sobillare il popolo contro Pier Damiani con l’argomento che «la chiesa ambrosiana non doveva soggiacere alla Chiesa di Roma».

Il movimento contrario alla simonia e al concubinato poteva giovarsi,

– da un lato, del sostegno di ordini monastici come quello di Vallombrosa;

– dall’altro, dell’appoggio combattivo di una parte dei fedeli che, in contrasto con una lunga tradizione canonica, rivendicavano il diritto di controllare la gerarchia ecclesiastica.

Su questo terreno, la risposta che venne dai papi riformatori fu positiva nel merito, ma rigorosa nell’esigere il rispetto delle procedure canoniche nei riguardi dei prelati concubinari o sospetti di simonia.

In talune città la controversia religiosa ed ecclesiale si intrecciò ben presto con le vicende politiche e sociali che opponevano i cives di estrazione mercantile ed artigiana agli esponenti del ceto feudale, a sua volta diviso in due ordini.

Ruolo determinante, a sostegno della linea delle riforme, un monaco di origine toscana ma formatosi a Roma, Ildebrando di Soana, esponente di spicco della curia fin dagli anni dei pontificato di Niccolò II.

Alla morte di Alessandro II (1061-73) Ildebrando divenne papa assumendo il nome di Gregorio VII (1073-85). Il contrasto con l’impero raggiunse allora il suo acme: Gregorio, sfidato da Enrico IV (1056-1106) sul terreno delle investiture episcopali, osò dichiarare decaduto il re e imperatore e addirittura sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà al loro sovrano. La scomunica fu revocata solo dopo un’attesa di Enrico durata tre giorni davanti al castello appenninico di Canossa in Emilia, nel freddo inverno del 1077.

il gesto del papa e la dottrina che ne costituiva la giustificazione erano in realtà senza precedenti. Anche per questo, la lotta si riaccese ben presto sino a condurre ad una seconda scomunica, cui fecero séguito una spedizione romana dell’imperatore, la nomina di un antipapa, il ritiro di Gregorio a Salerno sotto l’ambigua protezione normanna, infine la sua morte in esilio.

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