Ciò che genera il diritto nuovo, ciò che gli dà forma e lo fa evolvere sono le consuetudini, sono i comportamenti ripetuti nel tempo, via via consolidatisi in regole vincolanti sia per i singoli che per le comunità.

Le stesse leggi dei regni germanici avevano costituito anzitutto, la formalizzazione scritta di norme consuetudinarie preesistenti. Gli ulteriori interventi legislativi dei re Visigoti, di Liutprando, di Carlo Magno e dei successori avevano a loro volta recepito altre consuetudini ed anche introdotto principi nuovi.

Più tardi, nei secoli X e XI, la legislazione si ridusse quasi sino a scomparire: rimasero i monumenti legislativi anteriori, circondati e come sommersi da una folla di consuetudini draganti su tutto l’arco dei rapporti giuridici: dai contratti alle successioni, dal processo al sistema delle pene, dal governo del territorio alle istituzioni militari e ai rapporti con le chiese.

Il punto di partenza è costituito, in particolare nei regni franco e longobardo e poi nell’impero carolingio e postcarolingio, dal sistema della personalità del diritto, al quale si è già in precedenza accennato. Una pluralità di leggi vige contemporaneamente nel medesimo territorio e ciascuna di esse si applica alla propria stirpe.

All’interno di questo sistema la consuetudine ha grande peso, come dimostra l’esame dei documenti coevi, nei quali sono frequenti le tracce di consuetudini giuridiche non contenute nelle leggi scritte.

Quanto alle popolazioni viventi a diritto romano, le condizioni in cui l’ordine giuridico si era trovato a funzionare con l’avvento dei regni germanici erano tali da rendere di fatto inutile, quando non impossibile, il ricorso ai monumenti legislativi tardo-antichi, cioè alle compilazioni di Teodosio II e di Giustiniano; sicché non a torto si è potuto sostenere che nel corso dei secoli dal VI all’XI lo stesso diritto romano si è tramandato in Europa per via consuetudinaria, attraverso la pratica dell’applicazione quotidiana.

Con il passare del tempo, tuttavia, la consistenza di più leggi personali entro un medesimo ordinamento generò difficoltà crescenti.

I rapporti giuridici tra uomini di stirpi diverse, un tempo rari ed eccezionali, si fecero sempre più frequenti. Nacquero allora ripetuti conflitti tra leggi, che era indispensabile riuscire a superare.

Già Liutprando, in un celebre editto dell’anno 727, aveva aperto una via allorché aveva consentito ad una o ad entrambe le parti di adottare nei contratti una legge diversa da quella di appartenenza.

Più tardi, un capitolare di Pipino aveva risolto altri casi di conflitto stabilendo che nelle controversie sullo stato delle persone ognuno si difendesse avvalendosi della propria legge, e che la composizione pecuniaria dovuta per atti illeciti venisse fissata in base alla legge della persona offesa . Ma in molti altri casi il conflitto rimaneva aperto.

Col tempo, le leggi longobarde e i capitolari avevano assunto il carattere di norme territoriali

I sintomi di crisi, già emersi nell’ultima età longobarda, si accentuarono nell’età carolingia: lo rivelano gli sforzi compiuti dai sovrani per tenere ogni suddito ancorato alla propria legge.

Nonostante ciò, il sistema sopravvisse ancora per secoli. Nei secoli IX e X si affermò la prassi di dichiarare nei singoli negozi la «nazione» e dunque la legge di appartenenza attraverso le «professioni di legge».

Occorre peraltro tener presente che nelle zone in cui prevaleva un’etnia, la professio iuris veniva dichiarata, di norma, soltanto da coloro che se ne distinguevano.

Accanto alle due leggi principali, la longobarda e la romana, si trovano in Italia anche significative professioni di legge salica in lati compiuti da personaggi della stirpe dei Franchi.

E ci si imbatte anche in sporadiche professioni di legge alamanna, burgunda, gotica. Le carte notarili attestano che la consuetudine di dichiarare la propria legge nazionale in taluni negozi ebbe lunghissima vita, sino al tardo medioevo ed oltre.

L’esame dei documenti rivela, tuttavia, fatti singolari.

Vi sono individui che professano legge longobarda, ma adottano regole tipicamente romanistiche; altre volte accade l’inverso.

Molto spesso la menzione della legge professata non si traduce in regole giudiche differenziate: in altri casi le differenze sono di mera forma; in altri ancora, è la sostanza giuridica a rimanere distinta per gli uni e per gli altri.

Questa varietà di situazioni non deve stupire: è nella natura stessa della consuetudine di realizzarsi in forme diverse.

I comportamenti spontanei, che nel loro ripetersi costituiscono gli usi, assumono modi non uniformi non soltanto nello spazio, ma nel tempo: la consuetudine è un fenomeno plastico, non statico, sicché non è raro riscontrare che essa è mutata a distanza di secoli in seguito a vicende e a necessità che per lo più possiamo soltanto intuire.

Nei contenuti, le consuetudini italiane dei secoli X e XI sono un insieme di tradizioni longobarde, di sopravvissuti o rinati principi romanistici, ed anche di regole nuove.

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