Da quanto detto fin qui abbiamo visto che il concetto di persona è alquanto articolato e  il richiamo allo stesso termine indica un valore che porta a scelte diverse se non opposte. E ciò ci aiuta a capire come spesso l’ambiguità delle parole funge da endoxon apparenti.

Occorre in questo senso analizzare la frase contenuta nell’Evangelium vitae. Si afferma che oggi c’è un’evidente contraddizione: proprio in un’ epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene tragicamente. Monito importante questo, soprattutto se si analizzano le circostanze che hanno fatto sorgere il dibattito bioetico.

Come si sa il termine “bioetica” sorge nel 1971 da Potter con l’intento di dar l’avvio ad una forma di riflessione che “gettasse un ponte” tra le esigenze della ricerca scientifica e quelle del rispetto etico della persona umana. Indubbiamente la disciplina bioetica nasce in un contesto culturale caratterizzato dall’utilitarismo, dall’edonismo e dal consumismo. Però va anche ricordato anche che la riflessione sui rapporti tra tecnica, medicina e etica si pone come fondamentale quando l’opinione pubblica nord-americana scoprì di non poter attribuire la paternità dei “crimini”, compiuti nel nome della scienza, al solo regime nazista, le cui responsabilità erano state denunciate e condannate nel Processo di Norimberga. Si trattava anche delle pratiche eugenetiche perseguite nei centri medici nord-americani ma soprattutto da ricordare 3 famosi casi venuti alla luce negli  anni ’70 e che portarono molti a ritenere che alcuni ambiti deontologici andassero sottratti all’esclusivo dominio della medicina tradizionale.

In particolare è da ricordare il caso del 1964 quando in un noto ospedale di New York furono iniettate, a loro insaputa, cellule vive cancerogene a 22 anziani.

O quando tra il ‘56 e il ’70 furono infettati di proposito con il ceppo dell’epatite 700/800 bambini portatori di handicap per sperimentare una profilassi contro l’epatite stessa;

o ancora quando dal ’32 al ’72 600 braccianti negri vennero sottoposti ad uno studio finalizzato a valutare il corso naturale della sifilide non curata, metà delle stesse cavie non fu curata e non fu informata della sua provocata malattia anche quando si poté disporre della penicillina e di un valido antidoto.

Lo choc per scienziati e medici e per la società civile nordamericana, di fronte alla divulgazione di questi casi, fu enorme anche perché erano abituati ad attribuire gli orrori ai nazisti ed a ritenere che l’unica regola che doveva guidare la scienza fosse “quella del possibile”.

Molti iniziarono così ad avvertire l’esigenza di conservare una coscienza comune di valori basilari, come quello della pari dignità di tutti gli esseri umani, e si respinga l’idea del benessere di alcuni a discapito di altri, perché solo così è possibile denunciare gli abusi.

Infatti il progresso della civiltà umana è stato caratterizzato dalla crescente rivendicazione dei diritti da parte di persone che avevano patito certi tipi di discriminazione in quanto prive di certe caratteristiche (schiavi, negri, donne, poveri, analfabeti, handicappati), rivendicazione che si basava sul fatto che queste persone erano in ogni caso esseri umani. Infatti la discriminazione era avvenuta proprio perché a tali “categorie” era stata negata non l’appartenenza bio-genetica alla specie umana ma il riconoscimento dello statuto di persona.

Oggi, nella società dei diritti umani e dell’eguaglianza fra tutti gli esseri umani appaiono nuovi tipi di discriminazioni fondate sul grado dello sviluppo fisico, psichico e sociale dell’essere umano, che appunto in base al possesso o meno di tali requisiti viene ritenuto degno o meno di piena protezione.

Ecco perché è necessario a detta di molti porre l’essere umano come valore in sé, cioè è fondamentale per qualsiasi riflessione morale e per garantire un rispetto reciproco. Altrimenti si avranno forme di discriminazione, in quanto il più forte vincerà. Importante ricordare quindi che i medici hanno spesso a che fare con esseri indifesi.

Ecco allora che si accetta la separazione tra individuo e persona si giunge ad attribuire il pieno diritto alla vita e alla complessiva tutela a chi può di per sé farlo valere, mentre lo si nega a chi per esercitarlo ha bisogno del riconoscimento altrui.

Quindi questo endoxon “persona” produce un esito paradossale, un esito che però non deve sorprendere  in quanto è frutto di una dimenticanza : il mistero dell’uomo, della sua vita e del suo destino.

Infatti nella concezione cristiana “persona” è l’altro nome dell’uomo, quello che ne indica l’esistenza misteriosa. Ogni uomo in quanto tale è perciò persona!

L’unico pensiero infatti che garantisce uguaglianza come unico presupposto della dignità l’appartenenza dell’individuo alla specie biologica umana. È solo questa identità che permette di garantire la dignità umana e di porre questa a fondamento dei diritti umani. Se ciò invece viene dimenticato ci sarà solo spazio per il sopruso e la violenza.

Una prova di ciò è offerta dal tema spinoso della liceità o meno della c.d. “selezione pre impianto” degli embrioni prodotti attraverso la fecondazione assistita.

L’Attuale normativa italiana (l. 40/2004) consente la prassi della diagnosi pre-impianto, su richiesta dei genitori che desiderano essere informati sullo stato di salute dell’embrione. La stessa legge non  consente però di selezionare gli embrioni ma impone di trasferirli nell’utero materno tutti, anche se malati. Ma parte della dottrina ha sottolineato come la donna non possa essere costretta in nessun caso al trapianto e tanto meno in un caso del genere, tenendo conto anche del dettato costituzionale che garantisce la volontarietà degli atti medici, e quindi non consentirebbe l’imposizione con la forza del trasferimento degli embrioni. E in effetti le linee guida della legge hanno previsto la non coercibilità del trasferimento in utero di un embrione malato, che d’altro canto potrebbe comunque  essere successivamente asportato in base alla legge 194/1978 che regola l’interruzione volontaria della gravidanza.

Secondo alcuni sostenitori della logica pro-choice, la diagnosi di malattia non è un programma di selezione degli individui, ma è diretto ad individuare un evento patologico che può coinvolgere le persone e la conoscenza dell’evento è diritto non alienabile del soggetto. La diagnosi ha infatti  finalità conoscitive doverose in termini di scelte di vita e organizzazione della vita familiare. Scelte che possono, proprio grazie alla diagnosi, essere fatte per garantire la miglior vita possibile al nascituro.

Tale tesi crea alcune fondate obiezioni. Sicuramente il richiamo al principio del dovere di conoscenza  e quindi di scelta informata è suggestivo soprattutto se giustificato in nome dell’esigenza di assicurare il benessere del nascituro. Ma è proprio questo tema che suscita alcune fondate obiezioni. Soprattutto quando si tratta di determinare una giusta misura. Nel senso che poi non è più facile distinguere tra

–          Scelta di un embrione più tosto che un altro fatta per prevenire la nascita di un bambino gravemente malato

–          E scelta invece fatta per migliorare il patrimonio ereditario.

Insomma diventa difficile stabilire quale sia la soglia accettabile dell’eugenetica selettiva. E comunque l’individuazione di una tale soglia non può essere affidata agli aspiranti genitori.

Interessante ricordare Palazzani che denuncia l’errore di fondo della bioetica pro-choice quando teorizza la liceità di ogni diagnosi prenatale a fine selettivo e della pretesa della madre di decidere se interrompere o meno il processo generativo.

Emerge nuovamente il problema causato dalla pretesa di disporre della vita: chi ha il diritto di disporne? Secondo la bioeticista unica risposta plausibile può trovarsi nel rifiuto di ogni pratica selettiva poiché sulla base del principio della intangibilità della vita e della identità umana e della liceità d’intervento solo a fine terapeutico, la biogiuridica considera illecito ogni intervento di genetica alternativa che può aprire la strada ad una sorta di discriminazione eugenetica o eugenismo selettivo che privilegia chi meglio risponde al modello ideale e perfetto in base a parametri arbitrali

Gli interventi di genetica migliorativa e costruttiva sono considerati gravemente illeciti in quanto lesivi della dignità della persona umana: ad ogni individuo va riconosciuto il diritto, sin dal concepimento, alla non manipolabilità del patrimonio genetico, in quanto lo stato fisico e mentale di ogni uomo non può dipendere dalla volontà decisionale di altri soggetti o dal calcolo dell’utile e della produttività sociale.

In questo senso Caterina Botti sottolinea che la qualità della vita dipende dalle relazioni, non è un qualcosa che appartiene intrinsecamente ad un individuo, già data o determinata una volta per tutte, ma è ad es. il risultato delle cure che si ricevono e del contesto in cui si vive. Per tanto è impossibile definire la qualità della vita di un nascituro oggettivamente già prima che sia nato.

Da quanto detto sin qui vediamo che non è quindi un caso che di fronte alla constatazione dell’insufficienza del riferimento dell’éndoxon della persona si ricorre ad un altro valore , avvertito come fondamentale nella società moderna: quello di autonomia. Chi vuol porre un solido freno, un limite etico all’avanzamento della ricerca e della sperimentazione tecnico-scientifica trova davanti a sé un altro luogo comune, apparentemente convincente: il valore dell’autonomia.

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