Solo nella controversia si danno giusto e ingiusto così come solo nel discorso si danno vero e falso; e poiché non si discorre né si controverse senza il medio del linguaggio, nella definizione del vero come del giusto il linguaggio e esercita un ruolo determinante.

Più esattamente l’assertorietà del linguaggio, con la sua resistenza alla problematicità del discorrere e del contro vertere, non è una accidentalità storica ma è la stessa determinazione dell’atto problematico intrinseco al controvertere e al discorrere. Sicché senza l’assertorietà implicita nel linguaggio, la leva della problematicità avrebbe un’efficacia puramente illusoria e per noi sarebbe vano cercare di discernere il vero dal falso e il giusto dall’ingiusto.

Gentile per affrontare questo codicillo parte dalle conclusioni, non per improvvisa passione apodittica, ma non ritenendo di essere ancora in grado di sviluppare compiutamente ed ordinatamente il suo discorso e volendo portare all’attenzione di due esercizi dialettici ai quali si era sottoposto per trattare il tema di linguaggio e diritto.

1) “ guardando indietro il fatto”→ l’accostamento di linguaggio e diritto è antico quanto la storia della civiltà, sul versante della linguistica come su quello della giurisprudenza. Una citazione di Benedetto Croce può ben rappresentare il fenomeno: “ com’è stato impossibile intendere quel che sia veramente il linguaggio, fintanto che sono state scambiate per la realtà di esso le grammatiche e i vocabolari, così non sarà possibile intendere il diritto, fintanto che si abbia l’occhio alle leggi e ai codici o, ancora peggio, ai commenti dei giuristi”.

A partire dalla metà del ventesimo secolo è scoppiata tra giuristi la passione per l’analisi del linguaggio essendo apparso immediatamente presumibile che il giurista, inteso come colui che opera col diritto, avendo per oggetto di studio un linguaggio (quello del legislatore) ed usando nella propria ricerca il linguaggio comune, fosse particolarmente esposto al pericolo (o meglio al peccato) di adoperare senza scrupoli i mezzi della lingua quotidiana per fini di cui essi non sono stati destinati e non sono adeguati.

È su questa denuncia di un presunto peccato che gentile esercita l’attenzione dialettica

L’assunto per il quale il significato di una parola non sarebbe qualcosa di intrinsecamente e definitivamente legato ad essa, ma dipenderebbe soltanto dalle regole che per l’uso di essa sono fissate in un sistema dato di linguaggio, sembra trovare nel discorso giuridico un campo di verifica: non vi è dubbio infatti che alle espressioni del linguaggio giuridico non si connettano delle cose; né per questo ci si deve preoccupare di sollevare il problema della connessione tra il linguaggio giuridico e la realtà, quando con esso si conseguano gli scopi prefissati. Questo è quanto basta nell’ottica operativa della scienza.

Insomma, il linguaggio giuridico non sembrerebbe asserire alcunché. Al sofisticato rovello dell’analitico il linguaggio giuridico si rivela come finalizzato a produrre mediante l’imperativo delle virtualità, di qui l’uso di parole che sostengono l’azione o la inibiscono, parole che influenzano i comportamenti.

L’esperienza giuridica sembra offrire all’analitico il destro per individuare e definire un uso del linguaggio non tanto per rappresentare la realtà, quanto per plasmarla; con la conseguenza di escludere che per esso valga il principio in virtù del quale ogni proposizione deve essere o vera o falsa e specularmente di affermare quale unica misura del giusto e dell’ingiusto quella dell’efficacia o dell’inefficacia operativa.

Questo linguaggio è dunque uno strumento di controllo sociale c.d. teoria strumentale del linguaggio giuridico.

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