Per Bobbio la giurisprudenza non è né scienza empirica, né scienza formare, bensì un’analisi del linguaggio e più precisamente di quel particolare linguaggio in cui si esprime il legislatore; essa deve trasformare il discorso legislativo in discorso rigoroso. Il giurista si collocherebbe per così dire tra il legislatore e il giudice

Tre sono le fasi di sviluppo della giurisprudenza:

1) purificazione: il linguaggio del legislatore non è necessariamente rigoroso, il compito del giurista è quello di fissarne i concetti (per l’analitico il concetto non è altro che un insieme di regole che stabiliscono l’uso della parola) → la purificazione in definitiva consiste nella sua desostanzializzazione.

2) completamento: consiste nel trarre dalle proposizioni normative espresse, tutte le conseguenze normative che sono da esse ricavabili in base alle regole di trasformazione fissate dal legislatore stesso (per l’analitico un discorso è scientifico in quanto contiene in sé la possibilità del proprio sviluppo non uscendo al di fuori di sé→ sicché per essere scientifico di, anche il linguaggio giuridico deve raffigurarsi come una lingua chiusa). Potremmo dunque concludere che il completamento consiste nella piena e totale esplicazione della sua autoreferenzialità.

3) Ordinamento: qui il discorso di Bobbio si inceppa. Anzitutto si può notare come l’espressione “ordinamento del linguaggio del legislatore” , stando alle regole dell’uso delle parole stabilito dall’analitico, dovrebbe significare “ordinamento dell’ordinamento”.

In secondo luogo colpisce la conclusione a cui l’analitico perviene: l’impossibilità di eliminare nell’ordinamento giuridico le antinomie “ chi ha esperienza delle discussioni giuridica sa che molte di queste sono inconcludenti perché le tesi opposte sono entrambe sostenibili avendo l’una e l’altra una serie di argomentazioni che la sorreggono; d’altronde di antinomie si parla persino nella matematica nella logica”.

Una via d’uscita sarebbe e cioè introducendo nel linguaggio del legislatore una proposizione presa da un linguaggio diverso, magari secondo regole stabilite dal legislatore stesso, ad esempio col riferimento ad un diritto naturale. Ma l’inserimento di una simile proposizione violerebbe la regola fondamentale della chiusura del linguaggio giuridico; in questo modo l’antinomicità dell’ordinamento invece di essere risolta verrebbe spostata ed aggravata→ non si tratterebbe più di un’antinomia tra proposizioni nell’ordinamento, ma di un’antinomia tra le stesse regole costitutive dell’ordinamento.

In definitiva, al termine “dell’ordinamento dell’ordinamento” l’analista del linguaggio legislativo non può non constatare l’incapacità dell’ordinamento a mettere ordine e cioè l’incapacità dell’ordinamento a stabilire un regolamento dei rapporti che sia diverso da quello del puro controllo che il più forte esercita sul più debole.

Che cosa significa infatti sostenere che nessuno può costringere il potere giudiziario ad attenersi ad una delle possibili interpretazioni del disposto legislativo se non che nessuno può contenere il potere effettivamente esercitato?

Conclusioni del primo esercizio: nel complesso movimento di revisione critica delle scienze si è venuta confermando e chiarendo in maniera inequivocabile la convenzionalità strutturale della conoscenza scientifica. Ogni definizione scientifica è essenzialmente artificiale, fondata su null’altro che una convenzione.

Più una scienza progredisce sulla via del rigore e della generalità, più il fattore convenzionalistico appare dominante.

Non c’è nulla di strano o di particolarmente originale che anche nell’ambito degli studi sociali, e in particolare nell’ambito degli studi giuridici, sia pensato alla desostanzializzazione della giurisprudenza in vista della piena razionalizzazione delle relazioni giuridiche.

In chi fosse poco abituato linguaggio scientifico potrebbe sorgere il sospetto che, in un certo senso, il convenzionalismo sia sinonimo di arbitrarietà: nulla di più sbagliato. Il vero scienziato sa per esperienza che la massima generalità viene proprio cercata non per ridurre, ma per potenziare l’applicabilità delle teorie; ne ebbe la percezione esatta già Hobbes quando si proponeva di applicarlo allo studio dei fenomeni giuridici.

Il fatto è che la giurisprudenza, come analisi del linguaggio del legislatore, varrebbe solo in quanto fosse utile strumento di controllo sociale. Ma possiamo dire che sia veramente così? le conclusioni alle quali sembra giungere la teoria strumentale del linguaggio giuridico di Bobbio sono deludenti.

Quale controllo sociale può infatti garantire un ordinamento giuridico insanabilmente compromesso dalle antinomie?

La teoria della giurisprudenza come analisi del linguaggio del legislatore, mediante la quale ci si riprometteva in un’ottica razionalista di fare del diritto uno strumento di controllo e quindi di moderazione del potere, si trova a vestire con i panni della giuridicità il dominio del più forte.

D’altra parte, la teoria della giurisprudenza come analisi del linguaggio, in quanto inadeguata perseguire l’obiettivo che ne costituiva la ragion d’essere, non raggiungerebbe nemmeno la dignità di una teoria scientifica.

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