L’indagine giudiziale rivolta a riconoscere, nelle concrete situazioni lavorative, la presenza della subordinazione, è tradizionalmente complicata. Anche se la nozione prefigurata dall’art. 2094 è ormai sufficientemente chiara dal punto di vista concettuale, nondimeno l’identificazione concreta delle situazioni di lavoro subordinato non è agevole, dal momento che raramente l’eterodirezione si rivela in modo conclamato. Risultano quindi decisivi i criteri di svolgimento dell’opera giudiziale di accertamento. L’occasione dell’intervento del giudice si verifica, di solito, in fattispecie qualificate in termini di autonomia (non subordinazione), nelle quali il lavoratore contesta tale qualificazione, e richiede l’accertamento della subordinazione, nonché, come conseguenza, l’applicazione in suo favore delle norme di tutela lavoristiche.

Il primo elemento utile per qualificare il contratto e individuare così la disciplina legale ad esso applicabile, dovrebbe essere rappresentato, di norma, dalle dichiarazioni formali di volontà condensate nel documento contrattuale, a cominciare dal nomen iuris attribuito al contratto. Ai fini della qualificazione giuridica del contratto, ci si domanda quale peso si debba attribuire a queste dichiarazioni di volontà delle parti. La risposta tradizionale è che il ruolo di tali dichiarazioni sia debole, se non del tutto inesistente: se consentissimo alle parti di qualificare come autonomo un rapporto di lavoro che nella realtà si svolge come subordinato, infatti, renderemmo facile eludere tutta la normativa a protezione del lavoratore subordinato. L’inderogabilità in peius della disciplina protettiva, inoltre, comporta la cosiddetta indisponibilità del tipo contrattuale del lavoro subordinato ad opera delle parti: come non è lecito derogare in peius ai singoli aspetti della disciplina, quindi, a fortiori non è lecito derogare in toto alla disciplina in discorso.

A questo punto, si deve principalmente fare riferimento a due ipotesi:

  • se si riscontra difformità fra la denominazione adottata e le dichiarazioni formali di volontà recate dallo stesso documento contrattuale. In un caso del genere (di scuola), almeno di massima, non c’è bisogno di indagare sulle effettive modalità di svolgimento del rapporto, il quale, semplicemente, verrà riqualificato da un giudice in base a quanto concretamente dichiarato.
  • se il contratto è stipulato con un’esatta corrispondenza tra nome e contenuto cartaceo , ma il rapporto si svolge concretamente in modo diverso da ciò che è previsto in detto contratto.

In questa seconda ipotesi l’indagine giudiziale si appunta sui fatti che hanno connotato lo svolgimento effettivo del rapporto, ossia sui comportamenti delle parti, i quali interessano al giudice dal momento che lo aiutano a ricostruire la reale intenzione dei soggetti coinvolti. Oggetto dell’indagine, quindi, sono gli obblighi assunti dalle parti, e in particolare dal lavoratore, dal momento che è prevalentemente da esso che si trae la risposta sulla qualificazione del rapporto.

Detto questo, essendo l’eterodirezione il principale elemento costitutivo della fattispecie, essa è anche ciò che si deve primariamente accertare. Nell’ambito della congerie eterogenea dei possibili elementi di fatto, tuttavia, soltanto alcuni di essi possono considerarsi direttamente espressivi dell’eterodirezione. La giurisprudenza, ad esempio, è solita assegnare grande rilievo all’emersione di elementi capaci di comprovare che il lavoratore era sottoposto a prescrizioni stringenti circa il lavoro.

Spesso, tuttavia, la giurisprudenza non è in grado di pervenire direttamente alla prova dell’eterodirezione, sia per la difficoltà oggettiva della ricostruzione di vicende di fatto, sia per una certa tendenza a sfumare del potere direttivo nel quadro dei nuovi modelli organizzativi con tratti post-fondisti.

Nei casi di maggiore difficoltà, quindi, la giurisprudenza è solita aiutarsi attraverso l’utilizzazione di criteri sussidiari o indici sintomatici (es. impiego di presunzioni semplici). I più comuni criteri sussidiari sono:

  • l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa.
  • il fatto di aver osservato un orario di lavoro con regolarità per tutto il corso del rapporto.
  • l’utilizzazione di strumenti di lavoro di proprietà dell’azienda.
  • l’erogazione di un trattamento economico commisurato al tempo della prestazione svolta.
  • l’esclusività dell’impegno lavorativo con il datore di lavoro.

Nell’ambito di questa modalità di indagine anche il nomen iuris di lavoro autonomo, attribuito dalle parti al rapporto, può tornare ad assumere un rilievo giuridico ai fini qualificatori. Il criterio della volontà delle parti, in particolare, può risultare tanto più rilevante quanto più ci si allontana dal prototipo di debolezza del lavoratore subordinato.

In conclusione, quindi, l’indagine giudiziale sulla subordinazione del rapporto si conferma difficile e complessa, e questo a causa della necessità di valutazione, da parte del giudice, di una serie di elementi, di diritto e di fatto, di varia natura. Tale valutazione, inoltre, non è sempre facile da prevedere, data soprattutto la molteplicità delle situazioni concrete con cui si ha a che fare

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