Il giudizio sugli atti della Comunità è circoscritto ad alcuni specifici difetti, che generalmente vengono addotti cumulativamente.

La Corte provvede lei stessa, comunque, a «battezzare» i motivi quando non sono indicati nel ricorso (CGCE 14-V-1974, causa 4/73, Raccolta, p. 491).

I vizi previsti nel testo dell’art. 230 sono:

a) incompetenza (allorquando un atto eccede i poteri conferiti all’autorità che l’ha emanato: così avverrebbe, per esempio, se la Commissione emanasse un atto riservato al Consiglio, oppure del tutto estraneo ai poteri della CE);

b) violazione delle forme sostanziali (ad esempio, qualora il Consiglio emanasse un atto per il quale è obbligatorio il parere della Commissione senza avere sentito quest’ultima, oppure qualora sia violato l’obbligo di motivazione degli atti comunitari; CGCE 6-IV-2000, cause riunite C-297-8/95 annulla delle decisioni della Commissione che infliggono sanzioni perché autenticate in una forma inadeguata);

c) violazione del Trattato «o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione» (quando l’atto è perfetto sotto il profilo della competenza dell’organo che lo ha emanato o delle forme essenziali alla sua validità ma è in contrasto con le regole di diritto della Comunità, anche quelle rappresentate dai principi generali consolidatisi nella giurisprudenza della Corte);

d) sviamento di potere (allorché l’atto è conforme alle norme del Trattato quanto alla competenza dell’organo, alla sua forma, ai suoi singoli elementi: tuttavia contrasta con i fini della norma sulla base della quale è stato emanato).

Gli atti impugnabili sono quelli che hanno effetti vincolanti: cioè i regolamenti, le direttive (queste, tuttavia, su ricorso di una delle istituzioni o di uno Stato, e non ad opera di un privato dal momento che questi, salvo il caso sinora teorico della direttiva che lo riguardi direttamente e individualmente oppure di una direttiva che contiene in sé anche una decisione, potrà e dovrà impugnare la misura statale di trasposizione della direttiva), le decisioni. Sono esclusi le raccomandazioni ed i pareri: le prime perché sono atti di indirizzo; i secondi perché destinati ad inserirsi nel procedimento di formazione di un altro atto che potrà, una volta perfezionato, essere impugnato.

Per la medesima ragione da ultimo esposta non sono impugnabili gli atti preparatori, salvo che producano effetti specifici nel quadro di una procedura speciale distinta da quella principale.

Così ad es. non è impugnabile la comunicazione della Commissione – generalmente fatta con una lettera normale (o raccomandata) – che segna l’apertura di un’inchiesta in materia di concorrenza (CGCE 11-XI-1981, causa 60/81, Raccolta, p. 2639) o il parere motivato nella procedura d’infrazione ex art. 226, mentre lo è l’atto con cui la Commissione comunica l’apertura di una procedura di controllo di un aiuto statale (art. 88, n. 3) perché questa ha la conseguenza che «lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad una decisione finale».

Con riferimento ad una decisione della Commissione adottata in forma di lettera, la Corte ha recentemente confermato il proprio punto di vista per cui negli atti elaborati in varie fasi sono impugnabili solamente «quei provvedimenti che stabiliscono il modo definitivo la posizione della Commissione o del Consiglio al termine della procedura con esclusione dei provvedimenti provvisori destinati a preparare la decisione finale» (CGCE 22-VI-2000, C-147/96).

Sono naturalmente impugnabili gli atti della Commissione che autorizzano o approvano la conclusione di un accordo internazionale perché rappresentano l’esercizio di una competenza attribuita ad un’istituzione della Comunità (CGCE 9-VIII-1994, causa C-327/91, Raccolta, p. I-3641), ma non è impugnabile l’accordo internazionale stesso, dato che non è un atto comunitario anche se deve essere applicato nell’ordinamento comunitario.

Un atto – ha stabilito la Corte (vedi per esempio 16-6-1993, causa C-325/91, Raccolta, p. I-3283) – è suscettibile di essere impugnato con il ricorso per annullamento se ed in quanto sia produttivo concretamente di effetti giuridici, essendo il contenuto (e non la forma) a determinarne il regime.

Nel caso concreto si trattava di una comunicazione. Di essa la Corte dice che imponendo agli Stati membri «di comunicare alla Commissione annualmente e in modo generale e sistematico i dati relativi alle relazioni finanziarie di una data categoria di imprese che realizzano un determinato fatturato, è un atto destinato a produrre effetti giuridici propri».

Facendo applicazione di queste regole, la Corte ha ritenuto passibile di ricorso per annullamento un’istruzione interna di servizio (CGCE 9-X-1990, causa C-366/88, Raccolta, p. I-3571), un «codice di condotta» (vale a dire un testo che raccoglie determinate regole di comportamento per i commissari e i funzionari) (CGCE 13-XI-1991, causa C-303/90, Raccolta, p. I-5315) e persino una decisione verbale CGCE 9-II-1984, cause riunite 316/82 e 40/83, Raccolta, p. 641).

Nel famoso caso AETS (o AETR) la Corte (31-III-1971, causa 22/70, Raccolta, p. 263) ha statuito che «l’azione di annullamento deve potersi esperire nei confronti di qualsiasi provvedimento adottabile dalle istituzioni (indipendentemente dalla sua natura e dalla sua forma) che miri a produrre effetti giuridici».

La Commissione aveva chiesto l’annullamento di una deliberazione del Consiglio che definiva gli obiettivi della negoziazione di un accordo internazionale relativo al personale dei veicoli addetti ai trasporti internazionali su strada. Avanti alla Corte, il Consiglio cercò di minimizzare il fatto affermando che la deliberazione non costituiva un atto impugnabile ai sensi dell’art. 173, 1 (oggi 230, 1) del Trattato: era una semplice «concertazione politica» dalla quale non scaturivano diritti, né obblighi. La Corte dimostra – le sue ragioni saranno esposte in altra sede – che l’oggetto dell’accordo rientrava ormai nelle competenze della Comunità e conclude nel senso indicato.

Nella sentenza 30-VI-1993 (cause riunite C-181/91 e C-248/91 in Raccolta, p. I-3685: si trattava di ricorsi del Parlamento europeo contro il Consiglio e contro la Commissione per l’annullamento di un atto che accordava un aiuto umanitario al Bangladesh che, a dire del Parlamento, ledeva i suoi poteri in materia di bilancio) la Corte accoglie le ragioni del Consiglio e dichiara il ricorso irricevibile: «l’atto controverso – statuisce la Corte – non costituisce un atto del Consiglio, bensì un atto adottato collettivamente dagli Stati membri»; esso non è quindi soggetto al sindacato di legittimità esercitato dalla Corte.

Il sindacato, conformemente alla funzione della Corte di garantire il rispetto del diritto nel sistema comunitario, si esplica sulla sola legittimità degli atti: è precluso il controllo sul merito, sull’opportunità etc.

Molto spesso l’oggetto della contestazione – fra gli Stati membri e la Commissione o tra quest’ultima ed il Consiglio – riguarda la «base giuridica» opportuna per l’atto contestato.

Il termine per l’impugnazione è di due mesi a decorrere dalla pubblicazione dell’atto oppure dalla notificazione di esso al ricorrente, ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza.

In questa categoria di controversie rientrano anche le cause relative alla mancata osservanza delle norme comunitarie antitrust. La Corte può infatti essere chiamata a pronunciarsi sulle sanzioni eventualmente inflitte dalla Commissione ad imprese che non hanno rispettato il principio della libera concorrenza o che hanno abusato della loro posizione dominante sul mercato europeo. Essa può annullare le sanzioni amministrative oppure modificarle, di regola riducendole. L’art. 17 del Regolamento 17/1962 le attribuisce in questo caso una competenza «anche di merito».

 

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