Essendo il tributo un prelievo sulla ricchezza privata operato dai pubblici poteri, non si aggiunge molto quando, interpretando la norma costituzionale sulla capacità contributiva, si coniuga quella capacità in termini di forza economica, con cui far fronte al prelievo fiscale, di consistenza economica del contribuente, di disponibilità monetarie attuali.

La capacità contributiva deve essere qualcosa di obbiettivo, legato alla struttura della imposta, nel senso che la base imponibile deve essere incorporata nella fattispecie legale come valutazione dell’elemento di ricchezza.

I canoni che devono caratterizzare una buona legislazione sono la razionalità e la semplificazione.

Le definizioni legislative delle imposte in Italia sono estremamente complesse, perché risultano da una definizione di carattere generale non compiutamente formulata e da una serie di casi specifici (non sempre esemplificativi della regola generale).

Un semplice elenco di casi tassabili non può giustificasi da solo, ma deve far riferimento ad una definizione di capacità contributiva determinata, deve essere l’esemplificazione di una manifestazione determinata di ricchezza.

Tale tecnica spinta all’eccesso può rendere irrazionale e contraddittorio un tributo, oscura la ratio e può condurre ad una tassazione di fatti estranei alla capacità contributiva assunta ad oggetto di una certa imposta.

L’avverbio che il legislatore impiega quando esce dall’ambito di una imposta è “inoltre”; ci si trova di fronte a “fattispecie surrogatorie” che hanno sì una funzione antifrode, in quanto cercano di individuare i comportamenti anomali che il contribuente segue allo scopo di evadere, ma spesso possono sconfinare nell’arbitrio e quindi in una tassazione costituzionalmente ingiustificata.

C’è dunque un’irrazionalità della legge tributaria che è detta “fiscalismo”: essa è sicuramente incostituzionale per violazione del principio di capacità contributiva.

 

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