Verso la fine del VI secolo, un’improvvisa rivolta dei romani, guidata da uomini appartenenti alla stessa gens del re, espulse Tarquinio il superbo e i suoi figli. Cacciato il tiranno, i romani non avrebbero più tollerato di esser retti da un rex, ma si sarebbero prescelti 2 capi annuali, chiamati praetores o consules, eletti dai comizi. Da allora daterebbe la costituzione repubblicana.
Da parte di molti storici moderni si è assunto un atteggiamento scettico sul racconto tradizionale del passaggio dalla monarchia alla Repubblica, che insistentemente richiama un processo rapido e violento. Gli storici, difatti, hanno immaginato l’avvento del regime repubblicano come il risultato di un processo più graduale, passato attraverso un progressivo indebolimento della figura del rex e sulla corrispondente crescita dei suoi comandanti militari.
Una simile ricostruzione, però, non appare molto plausibile, poiché lo spazio di tempo in cui si sarebbe dovuto verificare questo graduale processo di svuotamento, ovvero dalla fine del VI secolo alla metà del V secolo a.C., si riduce a meno di mezzo secolo e quindi ad un periodo insufficiente per assicurare quel carattere graduale che è il presupposto dell’ipotesi in esame.
Pertanto il tramonto delle strutture monarchiche non deve considerarsi come il risultato di una lenta decadenza, ma come un processo brusco e traumatico. Esso solo in parte è giustificato dalla più generale situazione dell’Italia centrale verso la fine del VI secolo. Con ogni probabilità il cambiamento costituzionale è collegato allo spostamento degli equilibri interni alla società romana. Gli storici moderni vedono difatti nella caduta dei re etruschi e nella instaurazione della Repubblica il segno di una forte ripresa delle antiche gentes rispetto alle nuove strutture politiche ed alle forze emerse all’epoca dei Tarquini e di Servio Tullio.