Regole generali

Dei termini processuali si occupano gli articoli 172-176 del c.p.p. Essi sono stati introdotti dal legislatore per stabilire gli intervalli di tempo che devono sussistere fra gli atti del procedimento, garantendo al contempo la ragionevole durata del processo di cui parla l’articolo 111 comma 2 della Costituzione.

E’ possibile distinguere due tipologie di termini.

I termini acceleratori: i quali impongono che un atto debba essere compiuto prima della loro scadenza. A loro volta i termini acceleratori si distinguono in:

  • termini perentori: la cui violazione impedisce di compiere l’atto per cui il termine era stato introdotto. In questo caso i termini debbono, dunque, essere rispettati a pena di decadenza;
  • termini ordinatori: che non comportano l’invalidità dell’atto adottato dopo la scadenza ma, solamente, la possibilità che sia inflitta una sanzione al

I termini dilatori: che impediscono il compimento dell’atto prima della scadenza dei termini fissati. Gli atti adottati prima della scadenza, sono considerati nulli.

Ai sensi dei commi 1 e 2 dell’articolo 172 del c.p.p.: “I termini sono stabiliti a ore, a giorni, a mesi o ad anni”. Molto importante è il 6° comma dell’articolo 172 il quale stabilisce che: “Il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere altri atti in un ufficio giudiziario, scade nel momento in cui l’ufficio viene chiuso al pubblico”. Questa regola, che si applica a tutte le parti (necessarie e non) compreso il pubblico ministero, non riguarda il giudice che può depositare i propri atti anche dopo l’orario di chiusura della cancelleria.

I termini sopra indicati possono essere prorogati, abbreviati prolungati o sospesi, secondo le modalità previste dalla legge.

La proroga: comporta il differimento del termine che viene posticipato (nel caso di termini perentori, è possibile solamente la proroga legale). La proroga può esse di due tipi:

  • Legale: nel caso in cui sia concessa in base alla legge (si pensi come esempio al 3 comma dell’articolo 172 il quale dispone che: “il termine che scade in un giorno festivo è prorogato di diritto al primo giorno feriale utile”).
  • Giudiziale: quando viene decisa dal giudice (si pensi alla possibilità di prorogare i termini di durata delle indagini preliminari).

L’abbreviazione di norma può essere richiesta dalla parte a favore della quale è previsto un certo termine. Vi sono, tuttavia, dei casi tassativi in cui l’abbreviazione può essere disposta d’ufficio dal giudice (si pensi all’abbreviazione dei termini per comparire dinanzi al Tribunale in composizione monocratica).

Il prolungamento: il prolungamento dei termini è previsto solamente per quelle ipotesi in cui l’imputato, o un’altra parte processuale, deve comparire dinanzi all’autorità giudiziaria e il suo domicilio (eletto o dichiarato) sia collocato fuori dal comune in cui l’autorità giudiziaria ha la sua sede.

Infine una sospensione dei termini è prevista, oltre che nei casi in cui venga disposta dal giudice, nel periodo feriale (che va dal 1° agosto al 15 settembre). Esistono tuttavia una serie di eccezioni alla sospensione (si pensi ad es. i reati di criminalità organizzata, ai procedimenti promossi contro imputati che si trovano in stato di custodia cautelare ecc.).

 

La restituzione nel termine

L’articolo 175 comma 1 del c.p.p. dispone che: “Il pubblico ministero, le parti private e il difensore, sono restituite nel termine stabilito a pena di decadenza (cioè il termine perentorio), se provando che la mancata osservanza del termine deriva da caso fortuito o da causa di forza maggiore”.

La richiesta di restituzione nel termine può essere proposta da tutte le parti, necessarie ed eventuali (rispetto a queste ultime solo se si sono costituite in giudizio).

Il richiedente ha l’onere di provare che il mancato rispetto del termine è dipeso da caso fortuito (cioè da un evento imprevedibile) o da una causa di forza maggiore (un evento esterno incontrollabile).

La richiesta di restituzione deve essere presentata entro un termine perentorio di 10 giorni dal momento in cui è cessata la causa di forza maggiore o il fatto che costituisce il caso fortuito. La restituzione può essere concessa, ad ognuna delle parti, una sola volta nel corso del procedimento.

Sulla richiesta di restituzione si pronuncerà il giudice con un ordinanza adottata in un procedimento privo di contradditorio (il c.d. procedimento de plano). Solamente l’ordinanza che concede la restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale o per proporre opposizione contro il decreto penale di condanna, può essere impugnata (negli altri casi l’ordinanza è inoppugnabile). L’articolo 175 comma 2 prevede una disciplina speciale per la restituzione in termini della parte interessata a proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale ovvero a proporre opposizione al decreto penale di condanna.

Secondo la vecchia disciplina il soggetto interessato alla remissione, doveva dimostrare di non aver avuto conoscenza del provvedimento contro cui proporre impugnazione/opposizione e il termine per richiedere la restituzione era di 10 giorni.

La nuova disciplina dispone che sia l’autorità giudiziaria a dimostrare la sussistenza di una condizione che impedisce la restituzione (Condizione ostativa è la conoscenza del procedimento e la volontaria rinunzia a comparire/proporre opposizione o impugnazione. Sia la conoscenza sia la volontaria rinunzia debbono essere presenti per impedire la restituzione nel termine; in caso contrario la restituzione deve essere concessa).

Il termine per richiedere la restituzione è stato esteso a 10 giorni. Per quanto riguarda gli effetti della restituzione, essa comporta che il tempo intercorso fra la notifica della sentenza contumaciale/decreto penale di condanna e l’avviso con cui si concede la restituzione, non sarà conteggiato ai fini della prescrizione del reato e che il giudice deve, ove possibile, rinnovare gli atti ai quali la parte aveva diritto di assistere.

 

L’atto irregolare e l’atto invalido

Un atto invalido è sicuramente viziato o, come usa dire una parte della dottrina, è imperfetto: in quanto viola il modello astratto previsto dal legislatore.

Se è pacifico che un atto invalido è imperfetto, non si può invece sostenere che tutti gli atti imperfetti sono invalidi (esistono infatti degli atti, che pur essendo perfetti, non vengono considerati invalidi bensì irregolari). Allo stesso modo non tutti gli atti invalidi sono nulli (e conseguentemente inefficaci) vi sono anche atti, che pur essendo invalidi, rimangono perfettamente efficaci (producono cioè i loro effetti) fin quando non interviene una declaratoria di nullità.

Occorre dunque trattare diversamente le varie ipotesi, considerando anche la possibilità che l’imperfezione venga sanata mediante un’apposita sanatoria.

 

Le invalidità tassative: nullità, inutilizzabilità, inammissibilità

La nullità è la specie più importante di invalidità dell’atto.

La inutilizzabilità è la sanzione che concerne gli atti a valenza probatoria, impedendo alla autorità giudiziaria di fondare su di essi una decisione.

Tradizionalmente è il distinguo tra inutilizzabilità patologica, che è correlata ai vizi più gravi dell’ammissione, acquisizione e valutazione della prova e la inutilizzabilità fisiologica posta a presidio del principio della separazione delle fasi, al fine di evitare che gli atti di indagine preliminare possano fondare una decisione finale.

In tale ultimo caso, l’atto è stato compiuto nelle forme previste dal codice, ma non si è formato nel contraddittorio delle parti.

In base all’art. 191 cpp, le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.

L’inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Essa è un vizio insanabile e, dunque, non si può procedere alla rinnovazione dell’atto.

L’inammissibilità ha il suo ambito elettivo negli atti di parte e si riferisce alla categoria delle domande. Essa impedisce al giudice di esaminare il merito di una richiesta di parte. Si tratta di un vizio radicale, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Ai sensi dell’articolo 606 del c.p.p., sono considerati inammissibili quegli atti di parte a contenuto petitorio (cioè quegli atti con cui si domanda qualcosa) che siano privi dei requisiti necessari e che per ciò non permettono al giudice di pronunciarsi sul merito, attraverso un provvedimento di accoglimento o di rigetto.

E’ possibile effettuare alcune distinzioni all’interno delle cause di inammissibilità disciplinate dal c.p.p..

Anzitutto bisogna distinguere le cause di inammissibilità generali (si pensi, ad esempio, all’interesse alla capacità, alla legittimazione ad agire) dalle cause di inammissibilità speciali. La differenza è che le cause di inammissibilità speciali sono tassative (debbono, cioè, essere previste specificatamente dalla legge); quelle generali non sono tassative (è possibile per l’interprete estendere la disciplina dell’inammissibilità).

In secondo luogo bisogna distinguere le cause di inammissibilità che richiedono solamente un accertamento di carattere formale (si pensi, ad esempio, all’accertamento circa il rispetto delle regole prescritte dalla legge per la forma dell’atto, le modalità di presentazione, di notificazione) da quelle che richiedono un accertamento sul merito (si pensi all’accertamento dell’interesse ad impugnare).

Per quanto riguarda gli effetti dell’inammissibilità: essi sono del tutto simili a quelli della nullità assoluta; l’inammissibilità può essere rilevata, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.

La decadenza, pur non trattandosi di una invalidità, si sostanzia nella consunzione di un potere da esercitare entro termini perentori, in ragione del decorso del tempo e dell’inerzia della parte.

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