Ai sensi degli artt. 152 e 153 i termini perentori (termine a pena di decadenza) possono essere stabiliti soltanto dalla legge o dal giudice autorizzato dalla legge (tipici). Tali termini sono improrogabili, ossia non possono essere abbreviati o prorogati nemmeno sull’accordo delle parti. La violazione dei termini perentori, quindi, è sempre rilevabile di ufficio.
Le esigenze di celerità e di certezza che sono alla base della previsione di termini perentori devono cedere di fronte alla circostanza che il mancato esercizio del potere processuale entro il termine sia dipeso da fatto non imputabile alla parte. Da sempre si è quindi sentita l’esigenza di introdurre un meccanismo generale di rimessione in termini, che potesse portare a compimento le molte disposizioni che prevedono ipotesi tipiche di rimessione in termini (es. art. 184 bis (abrogato) relativo alla rimessione in termini a favore della parte costituita) e le numerose decisioni della Corte costituzionale che hanno allargato ipotesi già esistenti di rimessioni in termini. Tale introduzione si è alla fine avuta con la l. n. 69 del 2009, con la quale è stato introdotto l’art. 153 co. 2: la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’art. 294 co. 2 e 3 .
A differenza dei termini perentori, i termini ordinatori (atipici) sono prorogabili dal giudice. La proroga, in particolare, deve essere disposta prima della scadenza, non può avere una durata superiore al termine originario e non può essere reiterata se non per motivi particolarmente gravi (art. 153). Distinti dai termini perentori e ordinatori sono quei termini indicati dalla legge al giudice al fine di consentire che il processo si svolga secondo determinati tempi, termini il cui mancato rispetto è sanzionato unicamente sul piano disciplinare.