Il processo di condanna ha un duplice contenuto (di accertamento e di condanna) e produce un duplice effetto (di accertamento del diritto sostanziale e efficacia esecutiva). Bisogna distinguere fra contenuto di condanna ed efficacia esecutiva perché, quando si fa riferimento al contenuto si guarda a cosa la sentenza afferma, ma il fatto che una sentenza abbia il contenuto di condanna non significa che quella sentenza abbia anche efficacia esecutiva (perlomeno immediata). L’efficacia esecutiva infatti, di regola adesso sussiste non appena la sentenza di primo grado è pubblicato (art. 282 c.p.c.), ma fino alla L. 353/’90 la sentenza di condanna di primo grado non aveva efficacia esecutiva. Ancora oggi comunque è possibile sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza di condanna (art. 283 c.p.c.).

Effetti della sentenza di condanna:

– Di accertamento dell’esistenza del diritto;

– Efficacia esecutiva. Sono state formulate varie opinioni riguardo la consistenza del contenuto di condanna:

  • Si è detto che esso consiste in un comando all’obbligato di adempiere;
  • Secondo altra opinione consiste sempre in un comando, ma non è rivolto all’obbligato bensì agli organi esecutivi (è il comando di intraprendere l’esecuzione forzata sotto istanza del creditore vittorioso);
  • Secondo una terza teoria consisterebbe non in un comando ma nella irrogazione di sanzioni;
  • È preferibile l’opinione secondo cui questa efficacia esecutiva consiste nel costituire in capo all’attore vittorioso il potere di iniziare l’esecuzione forzata. Quindi fa sorgere la cosiddett azione esecutiva (intesa come diritto ad iniziare l’esecuzione forzata).

Oltre all’effetto di accertamento e l’efficacia esecutiva, la sentenza di condanna ha un duplice altro effetto:

– È titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 2818 cc.).

– Quando è passata in giudicato (non è più impugnabile) allunga il termine di prescrizione dei diritti al decenni: se un diritto sostanziale, per il quale è stata pronunciata la condanna, è un diritto sottoposto ad un termine più breve di quello ordinario, la sentenza di condanna passata in giudicato determina ex lege l’allungamento del termine di prescrizione (quel diritto diventa soggetto alla prescrizione decennale).

Questi due ultimi effetti sono determinati dalla legge. Si parla tradizionalmente di actio iudicati con riferimento a questo fenomeno dell’allungamento del termine di prescrizione (l’azione viene a fondarsi sul giudicato, nel senso che quel diritto per quanto riguarda la prescrizione, è regolato dalla sentenza passata in giudicato).

Esistono diverse figure di sentenze di condanna:

Sentenza di Condanna generica (art. 278 c.p.c.): “quando è già accertata la sussistenza del diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, allora il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”.

La legge usa il termine potere (“può”), questo può avere diversi significati:

  • A volte significa attribuzione di una facoltà addizionale;
  • Altre volte viene inteso come attribuzione, da parte del legislatore, al giudice di un certo potere (in questo secondo caso deve essere inteso nel senso che, se sussistono i presupposti stabiliti dalla legge per l’esistenza del potere, il giudice deve esercitarlo, non è una facoltà discrezionale). È il senso con cui viene inteso nell’art. 278 c.p.c.
  • Vi sono due fasi nell’istituto della sentenza di condanna generica:
  • Una sull’an (sull’esistenza del diritto);
  • Una sul quantum.
  • La sentenze di condanna generica è una sentenza non definitiva poiché il legislatore prevede la pronuncia della sentenza, ma poi il processo prosegue. Bisogna pertanto distinguere fra:
  • Sentenze definitive: non è vero che una sentenza è definitiva quando passa in giudicato. È definitiva quando pone termine al procedimento che si è svolto davanti al giudice che la ha pronunciata, con riferimento al grado di giudizio in cui è stata pronunciata;
  • Sentenze non definitive: una sentenza è non definitiva quando il procedimento in cui è stata pronunciata prosegue davanti al giudice che l’ha pronunciata.Si tratta ora di determinare quale sia il contenuto della sentenza di condanna generica:
  • La sentenza di condanna generica è non definitiva perché il legislatore prevede che il processo prosegua davanti allo stesso giudice che l’ha pronunciata (il procedimento va avanti per la determinazione del quantum della condanna). È possibile che quindi che in un processo vi siano più sentenze definitive (una per ogni grado di giudizio che si è svolto in quel determinato processo).
  • Secondo un opinione la sentenza di condanna generica sarebbe una vera e propria sentenza di condanna, e la sentenza relativa al quantum sarebbe una sentenza di accertamento (accerta il quantum).
  • A questa qualificazione osta un circostanza ben precisa: la sentenza di condanna generica è priva di efficacia esecutiva, non si saprebbe nemmeno per quale ammontare può essere iniziata l’esecuzione forzata;
  • È preferibile configurare la condanna generica come una sentenza di accertamento relativa alla questione dell’an. Soltanto quando verrà pronunciata la sentenza relativa al quantum avremo una sentenza di condanna con vera e propria efficacia esecutiva. Il processo, visto che prosegue per la liquidazione, dovrebbe sempre terminare con una sentenza di condanna, perché dovrebbe essere sempre accolta la domanda del creditore. Invece la giurisprudenza ammette che in sede di liquidazione venga accertata l’inesistenza del danno (quando viene accertata l’inesistenza del danno significa che non esiste nemmeno il diritto sostanziale: non posso avere il diritto al risarcimento del danno se il danno non esiste). La conseguenza di questa configurazione giurisprudenziale dell’istituto è che, pronunciata una sentenza di condanna generica, è possibile che la fase successiva, relativa alla liquidazione, termini con una sentenza di rigetto nel merito della domanda (il giudice accerta che non esiste danno, quindi non esiste nemmeno il diritto). La sentenza di condanna generica pertanto ha un contenuto di accertamento dell’esistenza astratta del diritto (con riferimento al danno viene accertata l’astratta potenzialità dannosa del fatto, o l’astratta idoneità del fatto a cagionare il danno). L’accertamento è quindi solo parziale perché non ha per oggetto uno degli elementi da cui dipende l’esistenza del diritto: l’esistenza del danno. Questa differenza, fra previsione del legislatore e applicazione giurisprudenziale, si spiega poiché questo istituto è sorto nella giurisprudenza (esisteva già prima del codice del ’42 nella prassi giurisprudenziale, poi è stato recepito dal legislatore). Somma provvisionale significa una parte del petitum, nei limiti in cui è raggiunta la prova. Il giudice pronuncia una sentenza di condanna parziale della somma richiesta dall’attore. La sentenza di condanna alla provvisionale può essere autonomamente impugnata immediatamente dopo la sua pronuncia, senza attendere l’ulteriore sentenza della liquidazione del quantum (oppure possono essere impugnate insieme).
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  • Questa seconda sentenza (la sentenza di condanna ad una provvisionale) è una vera e propria sentenza di condanna con efficacia esecutiva (è sempre una sentenza di condanna non definitiva). È poi comunque possibile che nella fase successiva, relativa alla liquidazione, il giudice accerti che non esiste un ulteriore danno (allora avremo il rigetto della domanda per quanto riguarda l’ulteriore somma richiesta). Dal coordinamento fra queste due sentenze avremo una sentenza di accoglimento parziale della domanda (o se si vuole una sentenza di rigetto parziale della domanda).Entrambe le parti quindi sono parzialmente vittoriose e parzialmente soccombenti, quindi entrambe potrebbero impugnare la sentenza.
  • Il 2 comma dell’art. 278 prevede che “in tal caso (se viene pronunciata sentenza di condanna generica) il giudice, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può pronunciare una condanna al pagamento di una provvisionale nei limiti della quantità per cui ritiene raggiunta la prova”.
  • La legge prevede che sempre dopo la sentenza di condanna generica vi sia una fase ulteriore relativa alla liquidazione. La giurisprudenza invece ammette che sin dall’inizio (quindi il creditore può o chiedere la pronuncia di una condanna tout court, e nell’ambito di questa richiesta può chiedere la pronuncia di condanna generica, o chiedere sin dall’inizio la sola pronuncia di una sentenza di condanna generica relativa alla sola determinazione dell’an. In questo caso il processo può terminare con l’accoglimento della domanda e quindi con la pronuncia di una sentenza di condanna generica). Tuttavia, per non lasciare il debitore in balia delle iniziative giudiziarie del creditore e per evitare che si trovi a subire l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale sui propri beni, la giurisprudenza consente al debitore di opporsi alla pronuncia di una mera sentenza di condanna generica e di chiedere che il processo prosegua per la liquidazione del quantum.
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  • L’interesse del creditore a chiedere una pronuncia di condanna generica, visto che non può iniziare l’esecuzione forzata, deriva dal fatto che questa sentenza è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del convenuto (l’ipoteca è un diritto reale parziario di garanzia). Verrà iscritta sui beni immobili del convenuto sulla base della somma dichiarata dal creditore a spese sue (non è che ne possa abusare, esiste anche l’istituto della riduzione d’ipoteca).

Sentenza di condanna in futuro: si chiede al giudice di pronunciare un provvedimento che contiene la condanna attuale ad una prestazione, con un riferimento ad un diritto che però non è ancora esigibile perché è sottoposto ad un termine. Questo viene concesso solo in certe ipotesi previste dalla legge al fine di consentire al creditore di ottenere un titolo esecutivo per poter iniziare l’esecuzione forzata in futuro qualora, scaduto il termine, il debitore non adempia.

È un istituto eccezionale, un esempio è il procedimento per convalida di licenza (art. 657 ss. c.p.c.): il creditore può scegliere se iniziare un procedimento di cognizione ordinaria oppure iniziare questo procedimento speciale. Il locatore, con lo stesso atto, cita in giudizio il conduttore chiedendo il rilascio dell’immobile locato e contestualmente intima la licenza al conduttore. Lo stesso atto contiene un atto processuale (l’atto di citazione) e un atto di natura privatistica (la licenza, che non è altro che la disdetta).

  • Questa sentenza di convalida della licenza, nelle intenzioni del locatore, viene pronunciata prima che scada il termine di locazione. Non è automatica la convalida della licenza e la condanna del locatore, questi potrebbe produrre un documento di proroga del documento locatizio (allora il processo cessa di essere speciale e prosegue nelle forme ordinarie).
  • Secondo alcuni nella condanna in futuro non opera l’interesse ad agire (non vi è stata alcuna lesione attuale del diritto), secondo altri invece opera. In sede giurisprudenziale non si dedica particolare attenzione alla figura dell’interesse ad agire.
  • Alcuni hanno cercato di configurare la condanna in futuro come un istituto di carattere generale, cui potrebbe ricorrere qualsiasi titolare di un diritto di credito sottoposto a termine. Tale dottrina è fondata sulla figura dell’interesse ad agire: si ammette la sentenza di condanna in futuro in via generale perché si ha interesse ad ammettere tale forma di tutela (se però si utilizzasse il concetto di interesse ad agire in tale modo le forme di tutela si amplierebbero a dismisura).

 

Sentenza condizionata: è una sentenza sottoposta a condizione. Bisogna distinguere fra:

  • Sentenza di condanna sospensivamente condizionata: si verifica nel caso della cosiddett chiamata in garanzia (art. 106 c.p.c.). Un terzo, estraneo al processo, viene chiamato ed entra a far parte del processo. La parte del processo che lo chiama in causa può farlo quando ritiene che la causa sia comune al terzo, oppure quando una delle parti pretende di essere garantita (in questo caso abbiamo l’istituto della chiamata in garanzia in cui una parte chiama in causa un terzo pretendendo di essere garantita, cioè chiama in causa il suo garante proponendo la domanda di garanzia). Sul piano del diritto sostanziale Tizio è il garantito, e Sempronio è il garante. Sul piano processuale Sempronio ha il diritto di regresso nei confronti di Caio, quindi è Sempronio che è garantito ed Caio che è il garante (perché Sempronio se paga lui, ha il diritto di rivalersi nei confronti di Caio). Qui Sempronio ha proposto una domanda in via subordinata all’accoglimento della domanda principale. Questo significa cha ha proposto la sua domanda in modo tale che il giudice pronuncia sulla domanda subordinata solamente se accoglie la domanda principale. Molto spesso capita nei processi cumulativi un fenomeno di questo genere, in cui vi è la configurazione, da parte di una delle parti nei confronti del giudice, di una condizione di trattabilità ed decidibilità della causa nel merito sorta per volontà delle parti stesse (si verifica quando le parti propongono più domande subordinandole l’una all’altra). A volte la decisione sulla seconda domanda è invece subordinata al rigetto della domanda principale (es. un minore va in un’agenzia di viaggi e stipula un contratto per andare a fare una vacanza in un certo posto all’insaputa dei genitori. Al termine della vacanza del minore il genitore si vede recapitare la richiesta di pagamento da parte dell’agenzia. Il genitore a questo punto eccepisce la nullità del contratto per evitare il pagamento. L’agenzia di viaggi può proporre un’azione per l’ingiustificato arricchimento del minore, che però sarà subordinata al rigetto della domanda di pagamento del corrispettivo).
  • Altra forma di cumulo è il cumulo alternativo di domande: l’attore chiede al giudice di accogliere o l’una o l’altra delle domande, senza dire quale è quella principale (è un’ipotesi discussa perché non è ammissibile che sia il giudice a decidere quale sia la domanda da accogliere).
  • Se Tizio agisce contro Sempronio e chiede la restituzione della somma data a mutuo a Caio, Sempronio può chiamare in garanzia Caio proponendo una domanda di garanzia nei suoi confronti con cui fa valere il diritto di regresso. È una domanda proposta in via subordinata ed eventuale, il cui contenuto è il seguente: “giudice, dirà Sempronio, se tu accogli la domanda di Tizio e mi condanni a restituire la somma, allora condanna anche Caio a versare a me la somma che io verserò a Tizio”. È una domanda subordinata all’accoglimento della domanda principale. Se il giudice accoglie entrambe le domande allora avremo un capo di sentenza che accoglie la domanda di Tizio creditore nei confronti di Sempronio fideiussore, ed un’altra parte di sentenza che accoglie la domanda di Sempronio nei confronti di Caio. Questa seconda sentenza che accoglie la domanda del fideiussore, sempre contenuta in un atto formalmente unico, è condizionata sospensivamente all’effettivo adempimento da parte di Sempronio a favore di Tizio (il diritto di regresso, di un obbligato solidale nei confronti dell’altro, sorge solo se l’obbligato solidale ha effettivamente adempiuto).
  • Es. Tizio (creditore) ha dato una somma a mutuo a Caio (obbligato principale). Ha stipulato anche un contratto di fideiussione con Sempronio (Sempronio è fideiussore di Tizio per l’adempimento di Caio). Sempronio e Caio sono obbligati solidali nei confronti di Tizio (questi può scegliere se agire giudizialmente contro Caio o contro Sempronio).
  • Sentenza di condanna risolutivamente condizionata (detta anche condanna con riserva di eccezioni). Esempio può essere l’art. 35 c.p.c. che prevede l’eccezione di compensazione: “se è opposto in opposizione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, può limitarsi a pronunciare una sentenza di condanna relativa alla domanda dell’attore e rimettere il processo al giudice superiore per la pronuncia sulla eccezione, altrimenti tutto il processo viene rimesso al giudice superiore”.Questo schema è previsto da una disposizione che è abrogata nella seconda parte, quindi la possibilità della condanna con riserva prevista dall’art. 35 c.p.c. non trova più applicazione in seguito ad una riforma di una decina di anni fa. Serve solo per capire cos’è l’istituto della condanna con riserva, poiché questa è prevista anche dall’art. 65 della legge cambiaria (R.D. N. 1669/’33) e dall’art 57 della legge sull’assegno bancario (R.D. N. 1736/’33). Questi prevedono che, qualora viene esercitata l’azione cambiaria o l’azione sull’assegno cambiario, se il debitore propone eccezione di lunga indagine il giudice può pronunciare sentenza non definitiva di condanna (nell’ipotesi dell’art. 35 c.p.c. la sentenza è definitiva) con riserva delle eccezioni di lunga indagine del convenuto. Il processo prosegue e si avrà poi la pronuncia di una sentenza definitiva che pronuncerà sulla fondatezza dell’eccezione. Questa sentenza ulteriore, che avviene nella fase successiva dello stesso procedimento che si svolge davanti allo stesso giudice, sarà l’evento posto in condizione della prima sentenza (la prima sentenza è risolutivamente condizionata all’accoglimento dell’eccezione di lunga indagine).
  • Altro modo di coordinare le due sentenze (concettualmente il più esatto) è l’istituto della sentenza complessa. Il coordinamento avviene, ed il contenuto decisorio viene determinato, utilizzando i materiali di entrambe le sentenze (per questo sarà una sentenza complessa). È un fenomeno che trova abbastanza frequente applicazione nel caso delle impugnazioni (quando una sentenza viene parzialmente impugnata).
  • Prevede che vi sia un attore che fa valere un diritto di credito ad una somma di denaro e il convenuto che concepisca la compensazione con altro diritto di credito di somma di denaro. Questa disposizione prevede che se il creditore contesta il controcredito (quello del convenuto) e questo eccede la competenza per valore del giudice adito, il giudice verifica se il credito dell’attore è fondato su un titolo che o non è controverso o è facilmente accertabile. Se è così allora il giudice può pronunciare direttamente sul credito principale ignorando l’eccezione di compensazione (rimette quindi la causa al giudice superiore perché pronunci sul controcredito. La causa si biforca: una parte rimane davanti al giudice adito e un’altra viene rimessa al giudice superiore). La particolarità sta nel fatto che il giudice può pronunciare una sentenza di condanna che ha per oggetto il credito principale senza che abbia conosciuto dell’eccezione di compensazione (e questa magari era fondata). Quella sentenza di condanna allora è una sentenza che deve essere coordinata con la sentenza che sarà pronunciata dal giudice superiore (il quale pronuncia solo sul controcredito opposto in compensazione). Per fare ciò l’opinione prevalente ricorre alla figura della sentenza sottoposta a condizione risolutiva (la sentenza pronunciata sul credito sarà una sentenza risolutivamente condizionata alla pronuncia sull’eccezione di compensazione). Se il giudice accerterà l’esistenza controcredito viene meno la sentenza pronunciata dal primo giudice sul credito.

La sentenza condizionata è una sentenza eccezionale, da ammettersi nei soli casi previsti dalla legge. Vi è un però orientamento giurisprudenziale che ammette la sentenza condizionata come istituto di portata generale. Vi fa rientrare in tale categoria ipotesi differenti:

  • Sia la condanna in futuro;
  • Sia l’ipotesi di sentenza condizionata in senso proprio (quella la cui efficacia è subordinata ad un evento futuro e incerto);
  • Sia l’ipotesi in cui l’efficacia della sentenza è subordinata ad una controprestazione determinata. Questo orientamento è criticato dalla dottrina dominante perché è quasi impossibile conciliare due istituti strutturalmente diversi quali il processo di cognizione, diretto alla pronuncia di una sentenza di merito e che mira a produrre un accertamento di natura incontrovertibile, e la condizione, che per sua intrinseca natura comporta l’incertezza.Dinnanzi ad un ipotesi di sentenza sospensivamente condizionata (es. nel caso di cui sopra del fideiussore, il suo diritto di regresso sorge solo quando egli ha effettuato il pagamento al creditore in luogo del garantito. Il suo adempimento però non risulta dalla sentenza) si può iniziare l’esecuzione forzata se il creditore va dall’ufficiale giudiziario e chiede che si proceda al pignoramento (es. nel caso sopra è sufficiente una semplice dichiarazione di aver eseguito il pagamento al creditore). Ma l’ufficiale giudiziario non è un giudice, cioè non deve aver luogo un processo di cognizione per verificare l’avvenuto adempimento (es. nel caso sopra non vi è un accertamento dell’ufficiale giudiziario sull’esistenza del diritto di regresso). Il nostro processo esecutivo prevede quindi che il debitore esecutato faccia opposizione all’esecuzione instaurando un processo di cognizione contestando il diritto di procedere ad esecuzione forzata (contestando l’esistenza del diritto sostanziale).
  • Quindi il nostro processo esecutivo è strutturato in modo che una volta ottenuto il titolo esecutivo si può iniziare l’esecuzione forzata, salva la possibilità dell’obbligato di fare opposizione all’esecuzione.
  • Quindi, premesso che recentemente vi è stato anche un orientamento più restrittivo della sentenza condizionata, è preferibile nettamente l’opinione dominante in dottrina che non ammette la sentenza condizionata al di là dei casi previsti dalla legge.
  • Questo orientamento ammette la sentenza condizionata in senso proprio anche al di là dei casi espressamente previsti purché per determinare l’evento posto in condizione non siano necessari ulteriori accertamenti di merito per i quali si renda necessario effettuare un processo di cognizione. Il fondamento di questa opinione è costituito dal principio di economia processuale, dall’esigenza di evitare ulteriori accertamenti di merito (quindi ulteriori processi di cognizione) e per evitare anche l’aggravio di costi conseguente.

Non c’è solo la sentenza di condanna come titolo esecutivo, ve ne sono altre che non hanno un effetto di accertamento (es. ordinanze pronunciate nel corso del processo, cambiali, assegni, atti redatti dal notaio). Questo non significa che il diritto sostanziale esista, c’è sempre la possibilità dell’opposizione all’esecuzione forzata (del resto anche avendo una sentenza di condanna passata in giudicato, è possibile che il debitore abbia pagato dopo la sentenza di condanna pagata in giudicato, e tuttavia il creditore inizia lo stesso l’esecuzione forzata). Il processo esecutivo pertanto può iniziare anche se non vi è la certezza dell’esistenza del diritto, ma anche quando vi è stato questo accertamento quel diritto potrebbe essersi estinto nelle more dell’inizio dell’esecuzione forzata, quindi vi è sempre la possibilità dell’opposizione ad esecuzione forzata. Nel processo di cognizione che verrà poi instaurato mediante opposizione ad esecuzione forzata si procederà alla verifica che il diritto sostanziale esista (es. nel caso sopra che sia stato effettuato il versamento da parte del creditore al fideiussore).

 

Anche se il processo esecutivo si può iniziare pur non essendoci stato il processo di cognizione (es. sulla base di una cambiale scaduta), è pur vero che il processo di condanna è funzionalmente collegato con il processo esecutivo: attraverso l’esecuzione forzata si vuole realizzare coattivamente quel diritto sostanziale (che è il diritto di credito nel processo di condanna) per tutelare il quale è stato instaurato il processo di cognizione (più precisamente quel tipo di processo di cognizione che è il processo di condanna).

La dottrina prevalente ammette che un diritto di credito possa essere anche oggetto di un processo di mero accertamento (però il creditore ha sempre interesse a chiedere la pronuncia di una sentenza di condanna).

Il processo esecutivo ha luogo solo eventualmente, non è che sia una conseguenza necessitata dell’esecuzione forzata (può anche avvenire il pagamento spontaneo). Prima di questa però devono esserci degli atti prodromici che precedono e preannunciano il processo esecutivo:

– Notificazione del titolo esecutivo: consente che sorga l’esecuzione in forma specifica;

– Notificazione del precetto: non è altro che l’intimazione ad adempiere entro un certo termine (di regola è 10 giorni).

L’esecuzione forzata poi inizia, se si tratta di espropriazione, con il pignoramento. Negli altri casi il momento varia a seconda delle varie forme di esecuzione forzata (è sempre necessaria una richiesta del creditore all’ufficiale giudiziario. Alcuni la fanno iniziare dal momento della richiesta e altri dal primo atto dell’ufficiale giudiziario).

Visto questo collegamento funzionale, il legislatore ha predisposto diverse forme di esecuzione forzata che variano a seconda dei vari diritti sostanziali di cui il creditore chiede il soddisfacimento coattivo. Si distingue fra:

– Esecuzione in forma generica: è la espropriazione con cui vengono aggrediti i beni del debitore e poi, se non si tratta già di denaro, vengono liquidati e con il ricavato viene soddisfatto il diritto di credito ad una somma di denaro. Si vuole soddisfare il diritto di credito ad una somma di denaro;

– Esecuzione in forma specifica: predisposta per il soddisfacimento e per l’attuazione degli obblighi di fare e di non fare, o per ottenere l’attuazione della consegna del bene mobile o rilascio di bene immobile. Mira al soddisfacimento diretto di quel bene.

Quando si parla di obblighi di non fare significa obbligo di rimuovere ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo di non fare (es. se si è rialzato un muretto divisorio senza l’autorizzazione del proprietario del fondo finitimo si potrà ottenere la rimozione a spese dell’obbligato).

Vi sono degli obblighi per i quali non esiste un modo per soddisfare coattivamente il corrispondente diritto:

  • Obblighi di fare infungibili;
  • Obblighi di non fare.Tuttavia ci si chiede, dal punto di vista processuale, se sia ammissibile proporre una domanda di condanna ad una prestazione infungibile (es. il pittore che deve dipingere un quadro):
  • Riguardo questi diritti sarà possibile chiedere la tutela per equivalente, cioè questi diritti di credito si trasformano, nel momento dell’adempimento, in diritti aventi ad oggetto somme di denaro che costituisce l’equivalente del diritto a prestazione infungibile (quindi sarà possibile iniziare una esecuzione per espropriazione).
  • L’opinione tradizionale e prevalente ha sempre dato risposta negativa (la domanda è inammissibile): la possibilità dell’esecuzione forzata è una condizione di trattabilità e decidibilità della causa nel merito, non di carattere generale, ma che opera solo con riguardo alle azioni di condanna (potrò proporre un’azione di mero accertamento di un simile diritto e ottenere una sentenza di mero accertamento dell’esistenza di un simile diritto);
  • Altri hanno detti che vi è ugualmente la possibilità di proporre un’azione di condanna, anche se il diritto è infungibile. Si è cercato di coartare la volontà del soggetto debitore inducendolo ad eseguire la prestazione (questa non è in ogni caso esecuzione forzata, perché l’esecuzione forzata prescinde dalla volontà dell’obbligato. Qui invece la prestazione può essere solo eseguita dietro la volontà dell’obbligato). Si vuole che l’obbligato stesso adempia al suo obbligo:
    • Si è cercato di ricorrere agli art. 388 c.p. e 650 c.p.L’art. 650 c.p. punisce a titolo di contravvenzione chi non osserva un provvedimento legalmente dato da un‘autorità per ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico o di igiene. È stato evidenziato che dinnanzi ad un debitore che non adempie a un proprio obbligo non si applica l’art. 388 c.p. perché questo punisce i fatti fraudolenti (non sarebbe applicabile all’ipotesi del debitore che dichiaratamente non adempie al proprio obbligo poiché esso non compie nessun atto fraudolento).Riguardo l’art. 650 c.p. è stato evidenziato che l’ambito di applicazione è completamente diverso: si riferisce a provvedimenti dati dall’autorità amministrativa che sono volti a tutelare un interesse pubblico (nulla hanno a che vedere con atti giurisdizionali posti in essere dal giudice che sono volti a tutelare situazioni sostanziali private). La critica più grave è costituita dal fatto che per questa via si reintrodurrebbe la criminalizzazione dell’illecito civile (si tornerebbe ad una situazione ottocentesca dove il debitore finiva in galera per debiti);
    • Se tale teoria fosse valida, l’art. 388 c.p. sarebbe applicabile anche al debitore che non vuole pagare e al debitore che cerca di sottrarre alcuni propri beni (ma se il patrimonio di questo debitore è molto capiente, tale per cui l’esecuzione viene portata a compimento e viene soddisfatto integralmente il debito, secondo questo orientamento il reato sarebbe compiuto ugualmente).
    • Si è proposto di configurare come reato (o a titolo di delitto o a titolo di contravvenzione) il comportamento del debitore che dovrebbe compiere un’obbligazione infungibile o che dovrebbe osservare un obbligo di non fare, e che non adempie.
    • L’art. 388 c.p. prevede il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice: viene punito chi, per sottrarsi agli obblighi civili nascenti da una sentenza pronunciata da un giudice civile, o da obblighi civili dei quali è in corso l’accertamento davanti l’autorità giudiziaria, compie atti o comportamenti fraudolenti sui propri o altrui beni o altri fatti fraudolenti.
    • Altra opinione per coartare la volontà del debitore ad eseguire la prestazione fa riferimento alle ipotesi di astrante previste dal nostro ordinamento: sono delle misure coercitive consistenti nella condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni ritardo nell’adempimento (in sostanza il legislatore può stabilire che l’adempimento debba avvenire entro un certo termine, e che per ogni periodo di tempo, scaduto il quale vi è l’inadempimento, l’obbligato sia condannato a pagare una somma di denaro).
    • Le astrante non erano una figura generale prevista dal nostro ordinamento, esistevano solo delle singole norme:
  • Art. 18 Statuto dei lavoratori: nel caso in cui il datore di lavoro venga condannato per licenziamento illegittimo, deve anche effettuare il pagamento di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore, per ogni giorno di ritardo nella reintegrazione;
  • D.lgs. 206/’05 all’art. 140 prevede che le associazioni di consumatori ed utenti, iscritte in un elenco tenuto presso il ministero delle unità produttive, possano agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti chiedendo l’inibizione di atti o comportamenti lesivi degli interessi nonché l’adozione delle misure idonee a rimuovere gli effetti dannosi delle violazioni accertate. Il giudice può anche stabilire un termine entro il quale devono avere esecuzione gli obblighi che gravano sul professionista, ed il pagamento di una somma per ogni violazione o ritardo nella esecuzione di questi obblighi.
  • Queste astrante ponevano dei problemi poiché si doveva stabilire a chi dovevano essere destinate tali somme:
    • Art. 18 Statuto prevede che siano destinate al fondo pensione;
    • Art. 140 d.lgs. 206/’05 prevede che siano destinate ad un fondo destinato a finanziare iniziative utili ai consumatori.Si è sostenuto che, perlomeno in questi casi, sia ammissibile ottenere una sentenza di condanna anche se la prestazione è infungibile o vi è un obbligo di non fare.
    • Però la riforma N. 69/’09 ha introdotto l’art. 614 bis rubricato “attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare. Sono proprio quegli obblighi in relazione a quali si pone il problema della ammissibilità dell’azione di condanna. Il legislatore prevede che il giudice fissi, con il provvedimento di condanna, la somma di denaro che l’obbligato deve pagare per ogni violazione o inosservanza successiva o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Caratteristiche:
    • Si pone tale tipo di problema perché la nostra tutela è di tipo risarcitorio (l’ammontare della somma, al pagamento della quale è condannato un soggetto, è limitata dall’ammontare del danno cagionato). Ammettere che il soggetto creditore possa ricevere ulteriori somme per i ritardi periodici nell’adempimento, significa ammettere un ingiustificato arricchimento che è vietato nel nostro ordinamento (pertanto le astrante non prevedevano mai che il creditore fosse il destinatario di queste somme).
  • Questo provvedimento è titolo esecutivo (si può fondare un’esecuzione forzata) per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione od inosservanza;
  • Questa disposizione non si applica alle controversie di lavoro subordinato e relative ai rapporti COCOCO.È una grande novità nel nostro ordinamento, ma presenta anche molti problemi:
  • Il 2 comma dell’art. 614 bis prevede che l’ammontare della somma deve essere determinato tenuto conto, da parte del giudice, del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza.
  • L’espressione “con il provvedimento di condanna” non vuol dire solo sentenza di condanna: vi sono dei provvedimenti del giudice che sono di condanna ma non sono sentenza e sono inidonei a dar luogo all’accertamento incontrovertibile (es. art. 186 bis c.p.c. che prevede le ordinanze di pagamento di somme non contestate).
  • Poiché il presupposto è che venga pronunciato un provvedimento, e non solo una sentenza, è ben possibile che queste astrante possano essere collegate, sempre su istanza di parte, anche alla pronuncia di queste ordinanze;
  • Altro problema che sorge è quello conseguente al fatto che nella rubrica si parla di “attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare”, ma nel testo no. Siccome secondo l’orientamento tradizionale la rubrica legis non è legge, si pone il dubbio se queste misure coercitive possano trovare applicazione anche nel caso di obblighi diversi (non solo di fare o di non fare). Probabilmente non è questa l’intenzione del legislatore, ma il dubbio esiste;
  • Ulteriore problema nasce quando si tratta di stabilire quando sia “manifestamente ingiusto” erogare queste misure coercitive:
  • È stato ipotizzato che, ogniqualvolta sia previsto dal legislatore un altro rimedio, sia ingiusto ricorrere a queste misure coercitive. Quindi non potrebbero trovare applicazione, ad esempio, nel caso della violazione dell’obbligo di stipulare un contratto definitivo, poiché l’art. 2932 cc. prevede la possibilità di ottenere una sentenza costitutiva (la parte che vuole ottenere l’adempimento può proporre anche una domanda di condanna al risarcimento del danno);
  • Altro limite si può dedurre dall’art. 2058 cc. che prevede un limite alla possibilità di chiedere la reintegrazione in forma specifica (“quando ciò è eccessivamente oneroso per l’obbligato”). Se questo è il criterio che dobbiamo dedurre, allora possiamo ritenere che se l’obbligo di fare infungibile o l’obbligo di non fare risulta troppo oneroso, allora sia manifestamente ingiusto irrogare queste sanzioni;
  • Altro limite consisterebbe nella necessità che gli obblighi infungibili o di non fare mirino a tutelare un interesse non patrimoniale, o perlomeno anche non patrimoniale.
  • Se invece si trattasse solo di tutelare l’interesse patrimoniale esisterebbe comunque la via del risarcimento del danno, e quindi sarebbe manifestamente ingiusto. Probabilmente questa interpretazione è eccessiva.
  • Altro aspetto problematico di questa norma è che la domanda di irrogazione di queste misure coercitive deve essere formulata durante il processo di cognizione in cui è stata proposta la domanda principale (cioè l’azione di condanna). Non è ammessa un’autonoma azione diretta all’irrogazione di queste misure coercitive (non è possibile chiedere una sentenza di condanna, e poi dopo l’inadempimento chiedere l’irrogazione di queste misure coercitive. La domanda di applicazione di queste misure coercitive deve avvenire nell’ambito del processo di cognizione instaurato con la domanda principale);
  • Ci si è anche chiesti se l’applicazione di queste misure coercitive possa avvenire in corso di causa o debbano essere richieste sin dall’inizio. La risposta più corretta è probabilmente quest’ultima poiché in linea di principio si può ritenere che sia adesso ammissibile la domanda di condanna ad un obbligo di fare infungibile o di non fare, ma questa non è una tutela generalizzata, vale solo per gli obblighi di fare o di non fare e lo stesso articolo esclude il ricorso a queste misure coercitive per determinate controversie in materia di lavoro (per quanto riguarda questo ambito di controversie escluse si può ritenere che sia ancora valida l’opinione tradizionale che configura come condizione di ammissibilità della domanda la possibilità dell’esecuzione forzata).
  • Si giustifica la domanda di condanna ad un fare infungibile o di non fare solo se vi è anche la domanda di applicazione di irrogazione delle misure coercitive. Qualora queste non siano richieste, anche se in ipotesi il tipo di domanda fosse stato ammissibile, la domanda torna ad essere inammissibile. Non è possibile quindi proporre azione di condanna ad un fare infungibile o ad un non fare se non si chiede anche l’irrogazione delle misure coercitive (se io chiedo solo la domanda ad un fare infungibile o ad un non fare senza chiedere anche le misure coercitive, la domanda deve essere rigettata come inammissibile perché non vi è la possibilità della esecuzione forzata e non vi è neanche la possibilità di quelle misure coercitive che giustificano quelle domande di condanna);
  • Ci si deve chiedere se nei casi in cui sia “manifestamente iniquo” sia ammissibile una domanda di condanna ad un fare infungibile o ad un non fare: se vale il criterio che qualora sia previsto un rimedio specifico, e non semplicemente il risarcimento del danno, sia ingiusto ricorrere a questo tipo di condanne, allora non posso proporre la domanda di condanna nemmeno se chiedo anche l’applicazione di misure coercitive perché queste sono inammissibili e allora è inammissibile anche la domanda;

Ø La domanda di condanna alle misure coercitive ha carattere accessorio rispetto alla condanna principale, di conseguenza ne segue la sorte: se in appello venisse riformata la sentenza di condanna di primo grado ad un fare infungibile o ad un non fare, allora risulterebbe caducata anche la condanna all’applicazione delle misure coercitive, e se sono stati effettuati dei pagamenti sulla base di questa condanna sorge il diritto alla restituzione delle somme;

Ø Altro punto critico è costituito dal fatto che, alla luce del 2 comma, il titolo esecutivo per il pagamento delle somme è previsto solo con riferimento ad “ogni violazione od inosservanza successive”, non anche per le somme derivanti dal ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il primo comma però prevede la fissazione della somma di denaro dovuta dall’obbligato non solo per “ogni violazione od inosservanza successiva”, ma dice anche per “ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. Non viene menzionato come titolo esecutivo il provvedimento di condanna per le somme dovute per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, solo quello per ogni violazione od inosservanza successiva.

Probabilmente è una svista dal legislatore, ma altri hanno proposto un’interpretazione restrittiva dell’ambito di questo titolo esecutivo, distinguendo fra gli obblighi di fare infungibili dagli obblighi di non fare, e ritenendo che valga come titolo esecutivo solo per le violazioni o inosservanze degli obblighi di fare infungibili, non invece per la violazione degli obblighi di non fare cui sarebbero da riferire i ritardi nell’esecuzione del provvedimento;

Ø Il legislatore si è disinteressato del destinatario della somma. Tradizionalmente si era cercato di evitare che, qualora fosse prevista una misure coercitiva di questo tipo, il creditore fosse il destinatario della somma perché si voleva evitare un ingiustificato arricchimento. Invece qui il destinatario della somma è proprio il creditore, il quale quindi ha un arricchimento, giustificato perché voluto dalla legge, ma in sé c’è da chiedersi se sia proprio giustificato un simile arricchimento;

Ø Il 4 comma si dedica a fissare un criterio per la determinazione delle misure coercitive:

§ Valore della controversia (determinato dal valore della domanda giudiziale);

§ Natura della prestazione;

§ Danno quantificato o prevedibile;

§ Ogni altra circostanza utile.

La somma non è commisurata solamente al danno quantificato e prevedibile, è possibile discostarsene. Non è possibile che il giudice calcoli ad es. per ogni periodo di tempo di ritardo qual è il danno che sopporta il soggetto in questo periodo, vi è una molteplicità di fattori di cui si deve tener conto. È difficile determinare queste misure coercitive, specialmente nell’ambito di un sistema come il nostro che conosce una tutela di tipo risarcitorio in cui il danno è il limite massimo della condanna.

 

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