È un’impugnazione ordinaria (la sua proponibilità impedisce il passaggio in giudicato della sentenza).
È un’impugnazione che viene definita critica libera: si può dolersi sia dell’ingiustizia della sentenza che dei vizi.
È un’impugnazione sostitutiva, nel senso che ha per oggetto lo stesso oggetto del processo terminato con la sentenza appellata. La sentenza d’appello si sostituisce alla sentenza di primo grado (anche nel caso di conferma del contenuto della sentenza impugnata).
L’appello non è un diritto costituzionalizzato.

Contro le sentenze del giudice di pace l’appello va proposto al tribunale.

In via eccezionale vi sono delle ipotesi in cui l’appello non ha natura di impugnazione sostitutiva, ma ha natura di impugnazione rescindente. Le impugnazioni rescindenti sono quelle che hanno per oggetto un vizio particolare, solo quelli presi in considerazione dal legislatore per quel determinato mezzo d’impugnazione. Le impugnazioni rescindenti sono impugnazioni a critica vincolata, nel senso che ci si può dolere solo dei vizi previsti espressamente per quel tipo d’impugnazione. Le impugnazioni rescindenti prevedono due fasi:
–          Fase rescindente:  ha per oggetto il vizio. Se l’impugnazione è fondata significa che il giudice ritiene fondata l’esistenza di quel vizio. Allora annulla la sentenza e si apre la fase rescissoria;
–          Fase rescissoria: ha per oggetto lo stesso oggetto del procedimento terminato con la sentenza impugnata. Può svolgersi o davanti allo stesso giudice davanti al quale si è svolta la stessa fase rescindente (es. revocazione), o davanti ad altro giudice (es. ricorso per Cassazione).
L’appello è un’impugnazione rescindente nelle ipotesi previste dagli art. 353 e 354 c.p.c. (ipotesi in cui il giudice d’appello rimette la causa al giudice di primo grado). Questi prevedono un’elencazione tassativa:

–          Il giudice d’appello riconosce l’esistenza della giurisdizione che il giudice di primo grado aveva negato;
–          Il giudice d’appello dichiara la nullità della notificazione della citazione (non la nullità della citazione);
–          Il giudice d’appello riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio (ipotesi di pretermissione del litisconsorte necessario);
–          Il giudice d’appello riconosce che non doveva essere estromessa una parte;
–          Il giudice d’appello dichiara la nullità della sentenza di primo grado ex art. 161.2 c.p.c. (prevede il vizio della mancata sottoscrizione del giudice);
–          Il giudice d’appello riconosce che il giudice di primo grado ha errato nel dichiarare l’estinzione del processo (si fa riferimento non all’ipotesi dell’ordinanza pronunciata dal giudice istruttore, ma all’ipotesi della sentenza pronunciata dal collegio adito con reclamo).

Un’altra ipotesi in cui l’appello è un’impugnazione incidentale è stata introdotta dalla riforma del 2006 nell’art. 339.3 c.p.c. che afferma che “le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113.2 c.p.c. sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme comunitarie o costituzionali ovvero dei principi regolatori della materia”.

L’art. 113.1 c.p.c. enuncia la regola generale per cui il giudice deve decidere le cause applicando le norme di legge. Il secondo comma prevede che “il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede i 1.100 €, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 cc.” (questo parla dei contratti stipulati mediante adesione a formulari o moduli prestampati).

L’art. 339 c.p.c. parla di “equità a norma dell’art. 113.2 c.p.c.” perché vi sono altre ipotesi in cui il giudice può decidere secondo equità, e sono quelle previste dall’art. 114 c.p.c.: questo afferma che le parti, in materia di diritti disponibili, possono chiedere al giudice di primo grado ed al giudice d’appello che la causa venga decisa secondo equità. Quando però la causa viene decisa secondo equità a norma dell’art. 114 c.p.c. non può essere appellata.

Nella giurisdizione di cognizione il giudice reitera la volontà astratta della legge nel caso concreto (vi è questa lex specialis che si sostituisce alla volontà generale ed astratta). Nella giurisdizione di equità è il giudice che crea la norma, non può reiterare la volontà generale ed astratta della legge poiché questa non esiste. È difficile conciliare la giurisdizione di equità con il nostro ordinamento, questo perché tutti hanno il potere di far valere i propri diritti ed interessi legittimi, ma i diritti preesistono al processo (devono essere previsti da norme giuridiche). Invece quando si chiede al giudice di decidere secondo equità il diritto non esiste fino a che il giudice non crea la norma.

Nel 1984 il legislatore ha affermato che il giudice conciliatore deve decidere secondo equità osservando “i principi regolatori della materia”, ponendo così un limite alla sua discrezionalità. Poi quando è stato introdotto il giudice di pace questo inciso è stato eliminato. Nel 2004 però la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 113 c.p.c. nella parte in cui non prevedeva che il giudice di pace dovesse osservare i “principi informatori nella materia”. Nel 2006 con l’entrata in vigore dell’art. 339.3 c.p.c. è stato nuovamente introdotto il limite dell’osservanza dei “principi regolatori della materia”.

Alcuni hanno osservato che l’appello contro queste sentenze del giudice di pace che decide secondo equità mal si concilia con l’appello come impugnazione rescindente previsto nelle altre ipotesi dell’art. 353 e 354 c.p.c., questo perché la fase rescissoria qui non si svolge davanti al giudice di primo grado bensì davanti allo stesso giudice d’appello (nelle ipotesi dell’art. 353 e 354 c.p.c. la fase rescissoria si svolge davanti al giudice di primo grado). È una critica che non ha ragion d’essere perché la fase rescissoria può benissimo svolgersi anche davanti ad un giudice diverso. Tuttavia permangono due problemi:
–          La sentenza pronunciata nella fase rescissoria non può essere impugnata con ricorso per Cassazione per gli stessi motivi per cui è stata appellata;
–          La fase rescissoria è decisa secondo diritto. La sentenza pronunciata dal giudice d’appello secondo diritto è impugnabile in Cassazione per i motivi classici, non per quelli limitati previsti per la sentenza di primo grado pronunciata secondo equità. Non si può dire che le parti subiscono un pregiudizio in quanto la decisione secondo diritto è la regola nel nostro ordinamento.

Vi sono delle sentenze di unico grado (vengono conosciute e decise da un unico giudice, che generalmente è la Corte d’Appello):
–          Impugnazione di nullità proposta contro il lodo arbitrale (art. 830 c.p.c.);
–          Impugnazione ex art. 67 L. 218/’95: quando vi è la contestazione, la mancata ottemperanza alla sentenza o quando le si vuole attribuire efficacia esecutiva, chi la vuole far valere deve chiedere alla Corte d’Appello del luogo in qui questa deve essere attuata che accerti i requisiti per il riconoscimento automatico;
–          Cause di risarcimento danno per la violazione della normativa antitrust (art. 33 L. 287/’90 attribuisce questa competenza alla Corte d’Appello).
Vi sono delle sentenze dichiarate non impugnabili (la conseguenza è che non possono essere appellate, però è sempre ammesso il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111.7 Cost.):
–          Le sentenze pronunciate secondo equità nelle ipotesi previste dell’art. 114 c.p.c. (lo prevede l’art. 339.2. c.p.c.);
–          Ipotesi in cui le parti potrebbero proporre appello ma si accordano per ricorrere immediatamente in Cassazione ex art. 360.2 c.p.c. (si parla di ricorso per Cassazione per saltum o di ricorso per Cassazione omesso medio). Non trova mai applicazione poiché la giurisprudenza prevede che quest’accordo sia valido solo dopo che è stata pronunciata la sentenza di primo grado (avrebbe senso se si consentisse alle parti di accordarsi prima della sentenza);
–          La sentenza che pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (originariamente era prevista la possibilità di proporre regolamento di competenza);
–          Opposizione all’esecuzione del decreto ingiuntivo ex art. 615 e 616 c.p.c.;
–          Opposizione di terzo all’esecuzione forzata ex art. 619 c.p.c.

Queste ultime due ipotesi sono dei giudizi di cognizione che sorgono nell’ambito del processo di esecuzione e risolvono delle controversie relative a tale processo. Non fanno però parte del processo esecutivo ma sono processi di cognizione (vengono definite parentesi di cognizione nell’ambito del processo esecutivo. Sono state introdotte nel 2006). Nel 2009 si è tornati alla regola precedente, pertanto ora non c’è più la regola che prevede la non impugnabilità delle sentenze che pronunciano sull’opposizione all’esecuzione e sull’opposizione di terzo. Ora solo la sentenza che pronuncia sull’opposizione agli atti esecuti è non impugnabile.

 

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