Considerando la concezione di Beling traspare la caratteristica che alle scienze criminologiche per cui si ha la consapevolezza della irriducibilità del crimine a un mero sostrato naturale. Anche vari criminologi mettono in discussione l’esistenza del crimine. Quali sono le manifestazioni che ci dimostrano la sua esistenza? Una ricerca empirica avrebbe non poche difficoltà. Quella della variabilità dei diritti penali nel tempo e nello spazio è una consapevolezza che richiama il problema della dipendenza culturale delle qualificazioni penali. Per il criminologo rimane ineludibile la presa d’atto che ciò che è reato oggi potrebbe non esserlo domani e viceversa → relatività del reato

Di qui la sostituzione del concetto di crimine come oggetto di studio e spiegazione con quello di criminalizzazione come processo di attribuzione dello status criminale agli individui da cui consegue la produzione della criminalità.

Le insoddisfazioni ontologiche che le legislazioni moderne possono suscitare allo scienziato empirico scaturiscono dall’operazione mentale con cui la qualifica di criminale viene attribuita a dati del reale. Ciò perché il procedimento mentale è diverso, iter della cosiddetta sussunzione attraverso il quale il giudice riconduce un fatto concreto alla fattispecie astratta. Non si limita a descrivere una realtà ma in qualche modo la costruisce. L’accertamento della responsabilità è dunque propriamente una imputazione di responsabilità condotta su criteri normativi che distaccano l’oggetto definito dal piano meramente naturalistico.

Il criminologo si trova impossibilitato a definire il proprio oggetto in termini naturalistici dovendo appoggiarsi a un criterio normativo: l’operazione mentale sarà simile alla sussunzione praticata dal giurista. Anche lo scienziato empirico-sociale intento a maneggiare l’esplosiva miscela fattuale-normativa del crimine chiamerà in vita una realtà che prima non esisteva o almeno esisteva solo in parte. Su questa peculiarità dell’oggetto criminologico si innesta il problema di quali siano i criteri da adottare per operarne una stabile definizione. È emersa anche la questione del ruolo da attribuire allo statuto giuridico di quella entità che si dice crimine, nonché alle conseguenze degli inevitabili mutamenti cui tale statuto andrà soggetto per le scelte compiute dai legislatori e giudici.

Le alternative sembrano impraticabili. Non è raro trovare nella manualistica asserzioni che cercano di smorzare l’impatto di questo dilemma sulle fondamenta stesse della ricerca criminologica. Si afferma così che per lo studio del reato è un punto di partenza e si precisa che il lavoro criminologico per essere sensato non può fare a meno di appoggiarsi all’ordinamento penale, pur non dovendo assolutamente trovare in questo una delimitazione del proprio oggetto. La conclusione è che solo la definizione legale del reato come fatto tipico antigiuridico e colpevole previsto da una fattispecie penale può offrire certezza sulla portata e il contenuto del diritto criminale vigente.

Il problema definitorio deve trovare in criminologia un assetto variabile a seconda del tipo di ricerca. Più che all’interrogativo circa l’essere della criminologia si deve pensare al suo fare. Vicenda emblematica è quella di Sutherland, padre della scienza criminologica.

1984 → 10 anni di lavoro e 20 anni di studio della criminalità dei colletti bianchi: sottopone il manoscritto al presidente della casa editrice Dryden Press di NY. L’opera strappava la coltre di rispettabilità dei colletti bianchi . Illeciti di dirigenti, amministratori, funzionari, azionisti di maggioranza, banche, giornalisti, magistrati, uomini politici, grandi imprese industriali venivano passati al setaccio.

Tesi → le persone di elevata condizione sociale pongono in essere numerosi comportamenti criminali che differiscono da quelli delle classi socio-economiche inferiori soprattutto nelle procedure amministrative. I legali della casa editrice fanno presente che la pubblicazione a rischio di denuncia per calunnia, infatti Sutherland aveva dichiarato criminali comportamenti che non sempre avrebbero potuto essere qualificati reati. Anche l’università dell’Indiana  dove era direttore paventò la pubblicazione e quindi lui cedette infine alle pressioni e cancellò gran parte dei nomi dei finanzieri e società e i passi che avrebbero consentito la facile identificazione anche di quelle aziende non espressamente nominate.

Inoltre dovette anche escogitare una legittimazione scientifica per le proprie forzate reticenze, scritta nella prefazione del libro: Sutherland fa riferimento alla frequenza con cui in opere scientifiche riguardanti persone viventi vengono taciuti i nomi dei criminali, adombra una presunta incompatibilità tra le finalità del libro e il concentrare l’attenzione in modo malevolo sulle condotte di società ben individuate.

Di fatto Sutherland scontò sulla propria persona il dualismo di verità e apparenza che in tutti i suoi lavori dedicati alla criminalità dei colletti bianchi si era proposto a spezzare. Sutherland calcolò che per il decorrere della prescrizione la versione integrale del suo libro avrebbe potuto apparire negli USA nel 1953 ma morì nel 1950. Dopo 33 anni il manoscritto originale si apre la strada. La distribuzione differenziale delle immunità a beneficio degli uomini d’affari è uno dei temi portanti dell’opera di Sutherland sui colletti bianchi e uno degli aspetti che maggiormente conferiscono vitalità e efficacia al suo impianto generale e ai suoi snodi teorici.

Sutherland mette a nudo ogni piega della studiata elusione dei colletti bianchi da parte del meccanismo penalistico, sottolineando gli aspetti che rendono particolarmente pervasiva nei loro confronti la cosiddetta depenalizzazione prasseologica con elevati valori di cifra oscura. Il privilegio degli affari si manifesta prima di tutto in fase di applicazione della legge con le facili assoluzioni e la maggior tutela di cui godono le imprese rispetto alla giustizia. Oltre che dal trattamento differenziale nell’applicazione della legge essi sono beneficiati dalla possibilità di influire sulla stessa attività legislativa.

Da questa visione di fondo Sutherland trae forza e alimento per scandagliare le ripercussioni che il trattamento privilegiato dei colletti bianchi ha avuto sull’oggetto della criminologia, sulla definizione teorica della criminalità. La tesi di questo libro è che né le patologie sociali né le patologie individuali rappresentano un’adeguata spiegazione del comportamento criminale. Si afferma spesso che il crimine dovrebbe spiegarsi per mezzo delle caratteristiche psicologiche dei rei.

Una scuola di pensiero ha sostenuto la necessità di basarsi sulle deviazioni dalla norma di carattere organico, un’altra sulla mancata intelligenza e una terza sui disturbi emotivi. Tutti questi ordinamenti impiegano la stessa logica e differiscono tra loro solo per le caratteristiche cui annettono importanza nella eziologia del comportamento criminale. Il crimine è dunque il campo di studio della criminologia, viene definito quel fatto che la legge qualifica come socialmente dannoso.

Cressey, brillante allievo di Sutherland, nella premessa alla seconda edizione di White Collar Crime ravvisò il merito durevole dell’opera nell’aver allargato la prospettiva criminologica ben al di là dell’ambito su cui fino a quel momento si erano concentrati gli interessi degli studiosi. La scelta di Sutherland di assumere a oggetto di studio proprio la criminalità dei colletti bianchi appare come una svolta nella storia della criminologia, imprimendo una spinta decisiva all’emersione di nodi quali la cifra oscura e la selezione criminale.

Sutherland perseguiva al contempo il progetto di una rifondazione epistemologica della criminologia in grado di assicurarne l’affidabilità e l’autonomia degli strumenti conoscitivi rispetto al rilevamento ufficiale del crimine. Nel momento di tradurre la nozione teorica di criminalità nella concreta attribuzione dello stigma a soggetti diversi, la verità ufficiale tornò ad avere il sopravvento e anche la criminologia dovette arrestarsi alla sua soglia.

 

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