L’esemplare caso Sutherland ha confermato il singolare paradosso in cui la criminologia si dibatte: è scienza empirica ma assume a oggetto il crimine, un’entità che non si può dire precostituita in natura ma la cui individuazione è sostanzialmente il risultato di un giudizio che un soggetto istituzionale deve aver formulato. Il problema per il criminologo è di definire i criteri del giudizio necessari a materializzare questa entità. I vari modelli di definizione possono essere ordinati secondo una duplice coppia di parametri, rispettivamente rappresentativi della maggiore o minore aderenza del concetto di crimine alla nozione penalistica di reato ovvero di giudizio di disvalore compatto espresso dal corpo sociale.

Sulla base della loro applicabilità sarà possibile operare una classificazione che metterà in luce i caratteri più rilevanti per connettere le diverse definizioni alla prospettiva teorica.

  • definizione legale o giuridica del crimine → la criminologia assume a oggetto di studio tutto ciò che un determinato ordinamento positivo qualifichi come illecito o come reato
  • definizione sociale del crimine → la criminologia definisce il proprio campo di studio affidandosi a criteri empirici. Emblematica nelle definizioni sociali è quella di Durkheim: il crimine è quella condotta che viola gravemente la coscienza collettiva della società. Nei criteri empirico-sociali una decisa prevalenza manifestano quelli basati sulla dannosità sociale e sulla devianza dei fatti definiti. Criterio che presenta aree di contatto con quella della dannosità o pericolosità sociale delle condotte cui il legislatore deve prestare attenzione. Con il termine devianza viene intesa la condotta divergente non necessariamente dalle norme giuridico penali ma dalle regole che disciplinano la vita della società nel suo complesso.

Alla qualifica come deviante si connette una particolare visibilità tale da suscitare una reazione sociale. Il concetto è strettamente correlato a quello di controllo sociale. Come il diritto penale è un tipo di controllo sociale caratterizzato dal più alto grado di razionalizzazione e formalizzazione, così il reato è un tipo di devianza caratterizzata dalla violazione di quelle particolari regole la cui osservanza è presidiata da una sanzione penale. La devianza si espone a una serie di inconvenienti. È relativa, molto più che il reato. Si rileva inoltre la labilità della qualificazione come deviante di condotte che registrano un’ampia diffusione nella società. È generica sul piano qualitativo: non appare dunque un fenomeno unitario ma una miscellanea di reazioni sociali qualitativamente differenti.

Un secondo parametro di classificazione dei modelli definitori espressi dalla criminologia è quello che distingue tra definizioni consensuali e conflittuali.

  • consensuale → l’ordinamento è visto come fonte di un ordine sociale diretto a risolvere e prevenire le controversie e quindi a consentire ai cittadini di vivere in armonia.
  • conflittuale → ogni società risulta caratterizzata da una pluralità di valori, di morali e il problema cruciale riguarda le modalità che determinano il prevalere degli uni o degli altri. La legge è un’arma di cui si serve a proprio vantaggio il gruppo che sia in grado di farlo. Il crimine è il prodotto degli squilibrati rapporti di forza all’interno della società

Uno dei modelli definitori più puri è la definizione cosiddetta legale – consensuale, comunemente associata al nome sociologico del diritto americano Paul Tappan. Secondo questa prospettiva la criminologia dovrebbe limitare il proprio campo di studio ai soli fatti definiti come reati dall’ordinamento penale vigente esclusivamente a quelli in relazione ai quali sia intervenuta una condanna di reo passata in giudicato. Criminale sarà allora da intendersi il soggetto formalmente giudicato e condannato con sentenza penale per il reato commesso. Per Tappan dunque le norme giuridico – penali sarebbero la guida più precisa per la definizione di crimine. Cressey muove grosse critiche, soprattutto per la grave limitazione del campo di ricerca che essa deriverebbe alla scienza empirica.

Una tale impostazione inoltre è fuorviante perché lascia intendere che le definizioni legali siano chiara espressione di un consenso sociale in merito a ciò che costituisce crimine. Quest’ultimo rilievo tocca un ulteriore errore metodologico della prospettiva legale – consensuale, peraltro già addebitata a Lombroso. L’oggetto di studio di una criminologia che volesse basarsi sulla definizione di Tappan finirebbe per essere costituito dai soli individui condannati e detenuti: un campione evidentemente non rappresentativo della popolazione criminale. Non è comunque semplicemente sbarazzandosi di prospettive ormai superate come quella di Tappan che la ricerca criminologica potrà eludere il problema di trovare insieme a un proprio oggetto definito, una propria identità.

Un secondo modello di definizione di tipo socio-legale è quello che possiamo riconoscere nella prospettiva di E.H. Sutherland per il quale l’impostazione di Tappan risultava troppo restrittiva. La soluzione alternativa posta appare mirabile: in primo luogo la necessità di prendere in considerazione anche comportamenti antisociali che non assumano rilevanza penale e in specie quei crimini dei colletti bianchi, in secondo luogo la preoccupazione di non discostarsi del tutto dalle certezze e solidità di un parametro legale qui però assunto con accezione ben più lata che nella prospettiva di Tappan. Basa dunque il concetto di crimine sui requisiti seguenti:

– Qualificazione giuridica del fatto come socialmente dannoso

– Previsione legale di una sanzione come conseguenza di tale fatto

Allarga quindi la prospettiva criminologica anche a fatti che non costituiscono reati ma che assumono rilevanza per il diritto civile e amministrativo. Peraltro passando in rassegna le principali normative riguardanti i colletti bianchi, Sutherland era in grado di rilevare sanzioni non semplicemente giuridiche ma caratterizzate da una afflittività deliberata. Tra le critiche mosse a Sutherland non poteva mancare il rilievo della sua parzialità ravvisata però non soltanto nell’ancora ridotta estensione del campo criminologico ma nella selettività che caratterizza la previsione e interrogazione anche di sanzioni diverse da quelle penali. In sostanza prima ancora di una selezione propriamente criminale l’esperienza rileva una molteplicità di meccanismi selettivi che si localizzano anche nel campo della giustizia civile, amministrativa, tributaria..

La posizione di Sutherland può considerarsi un interessante compromesso tra le esigenze di certezza e l’attitudine a conferire allo studio empirico una sufficiente autonomia criticar rispetto all’ordinamento vigente. I modelli definitori esaminati finora si caratterizzano per il rilievo conferito a determinate qualità del fatto criminoso che venivano rinvenute prevalentemente sul piano delle decisioni adottate da giudici e/o legislatori.

Una definizione nella quale invece prevalente risulta il ruolo attribuito all’aspetto quantitativo è quella cosiddetta statica del criminologo inglese Leslie Wilkins. Si basa sul riscontro della diffusione nella società delle diverse condotte umane e identifica una corrispondenza tra la normale distribuzione di frequenza delle stesse e il loro contenuto etico : normali: fatti realizzati con alta frequenza – devianti: tutti gli altri. Questa distribuzione è rappresentata da una curva a campana. (IMMAGINE : VEDI TESTO)

Il difetto principale di questa impostazione sta nel suo semplicismo: anche se la scarsa frequenza di una certa condotta può essere modo di identificarne un carattere deviante, un criterio puramente statistico sottovaluta il ruolo di gruppi sociali nel selezionare tra le condotte infrequenti quelle qualificabili come criminali. Il criterio puramente quantitativo di definizione del crimine cade soprattutto al cospetto di una delle caratteristiche più vistose della criminalità moderna: il carattere di massa. La prospettiva di Wilkins illustra peraltro due verità difficilmente controvertibili della materia criminologica. Innanzitutto il carattere fortemente problematico dei rivelatori di una estrema frequenza dei reati.

I problemi si localizzano su una estrema varietà di piani, teorici e pratici. La stessa idea geniale quanto provocatoria avanzata anni fa da un sociologo tedesco secondo cui la cifra oscura sarebbe funzionale all’efficacia generalpreventiva della pena, è espressione di una analoga ide di funzionalità della dimensione quantitativa. Un secondo spunto ricavabile dalla curva di Wilkins rileva una tendenziale relazione inversa tra gravità del crimine e sua diffusione.

Un ulteriore tentativo di affrancarsi dalle rigide strettoie del parametro legale ha trovato espressione nella cosiddetta definizione interculturale proposta dal criminologo Thorsten Sellin :assume come termine di riferimento un’area di regole ben più ampia di quelle formalizzate in disposizioni legali e comprendente le norme di condotta dei diversi gruppi sociali in rapporto alle quali l’agire dei soggetti che ne fanno parte è valutato come normale o anormale. La particolarità di questa prospettiva è quella di voler estrarre dall’insieme delle norme di condotta una categoria di regole sociali caratterizzate dal fatto di manifestarsi invariate in tutte le culture.

Critica : impossibilità di individuare un significativo nucleo di norme costanti che non consista semplicemente nell’insieme di regole necessarie alle banali esigenze della vita quotidiana. Nella prospettiva interculturale depurata dell’aspirazione di ricercare la pietra filosofale di norme e crimini universali permane il rilievo attribuito alla relatività del crimine e la consapevolezza dell’impossibilità di comprenderlo e definirlo. Necessità di allargare la propria prospettiva a una dimensione di comparazione internazionale che sappia chiarire e spiegare i fattori della variabilità nello spazio delle qualificazioni culturali connesse al fenomeno criminale.

Se questa specificità costituisce un’importante avvertenza metodologica in criminologia essa non può trovare indifferente la stessa scienza del diritto proprio dove essa si dedichi alla comparazione giuridica tra sistemi, istituti e categorie di diversi ordinamenti. La comparazione si pone l’interrogativo di quali siano le soluzioni da altri sistemi giuridici a un certo problema sociale, poi si occupa di chiarire la prospettiva di uno o più diritti stranieri in merito al problema e a questo punto si ha la vera comparazione: chiarimento di concordanze e differenze tra le strutture giuridiche.

La comparazione è ormai metodo universale della ricerca giuridica che però deve avvalersi della comparazione criminologica per individuare le forme di manifestazione che assume il problema sociale. Il diritto penale trova nella criminologia un interlocutore ben attrezzato a soddisfare il bisogno di conoscenze empiriche. Le definizioni precedentemente esaminate sono accomunate da un elemento che la criminologia moderna ha ormai cessato di dare per scontato: una sorta di fede nell’esistenza del crimine come oggetto dotato di autonoma consistenza ontologica. Vi sono anche concezioni inclini a negare ciò: per esse il crimine è soprattutto il prodotto della costruzione di certi fatti come meritevoli di criminalizzazione operata da gruppi o istituzioni per interessi o motivazioni proprie.

Emblematica è la teoria di labelling approach, etichetta mento, incisiva nella definizione di Howard Becker : deviante è colui al quale tale etichetta è stata applicata con successo, quello così etichettato dalla gente. Ad alimentare il senso di irrealtà del crimine e il vistoso spostamento dell’attenzione sulla sua componente reattiva è poi la constatazione empiricamente fondata della diseguale distribuzione dello stigma all’interno della società ossia del fatto che il comportamento del reo è solo uno dei fattori certo non è più rilevante da cui dipende la sua qualificazione come criminale. Per il labelling approach il problema della definizione del crimine così fortemente avvertito da criminologie più tradizionali non possa essere propriamente affrontato ma debba essere girato alle stesse agenzie di controllo.

Varie obiezioni → idealismo, riproduzione della tendenza all’unilateralismo delle teorie criminologiche. Oltre a rimarcare la mancanza di dati empirici prodotti dai teorici del labelling approach a sostegno dei loro assunti, si è rilevato inoltre come essi finiscano per estromettere dal proprio angolo visuale tutti quei comportamenti “socialmente indesiderati” che non siano conosciuti e qualificati “ufficialmente” come criminali, con ciò manifestando una parzialità di visione non dissimile da quella addebitata ai fautori delle definizioni legali.

C’è inoltre da segnalare come lo spostamento dell’attenzione dal crimine come oggetto di definizione sociale ai processi definitori abbia favorito lo svilupparsi di un filone di studi dediti all’analisi del comportamento delle agenzie di controllo e in generale di tutti i soggetti coinvolti nel lungo iter di criminalizzazione. Il criminale diventa diverso da tutti noi, una persona che non può e non vuole agire secondo la moralità di un essere umano e dunque potrebbe violare altre importanti regole sociali. Ciò ha avuto anche un significativo riflesso concettuale permettendo alla distinzione tra devianza primaria e secondaria di innervare stabilmente la sensibilità criminologica.

  • deviazione primaria: interviene all’interno di un’ampia varietà di contesti sociali e che abbia delle implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell’individuo
  • deviazione secondaria: comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso che diviene mezzo di difesa

Negli stessi studi sulle carriere criminali che occupano un’area ormai di grande importanza ed enorme ricchezza di risultati scientifici, si è visto il fondamento empirico delle criminologie della reazione sociale. Si riconosce dunque a questi studi l’apporto di dinamismo recato alla visione del crimine e la spinta ad abbandonare la semplicistica dicotomia tra criminali e non criminali così condizionante per la criminologia del passato.

Anche la predizione del comportamento criminale così importante nell’ambito dei sistemi penali orientati ad attribuire alla sanzione una finalità preventiva ha cominciato a porsi, in teoria e in pratica, il problema di evitare che i soggetti nei quali siano state individuate specifiche caratteristiche predittive subiscano per ciò stesso un effetto di stigmatizzazione. Agli esponenti del labelling approach si è in genere propensi ad accreditare anche un impatto profondo sulla politica sociale. In particolare viene avvertita ormai da tempo l’esigenza di temperare gli effetti negativi prodotti sugli individui all’applicazione delle sanzioni e dallo stesso contatto con il processo penale.

Più in generale poi è l’attenzione per l’effetto reputazionale delle sanzioni sociali a essere stato risvegliato o di servirsi positivamente del sentimento di vergogna per favorire una reintegrazione sociale degli autori di fatti criminosi. Le teorie della reazione sociale hanno avuto il merito di richiamare l’attenzione sulla complessità degli effetti prodotti dalla giustizia penale, spesso opposti rispetto a quelli comunemente previsti.

 

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