Le norme non possono essere estranee all’ambito dell’interesse della criminologia. Già la definizione di Kaiser attribuiva alla criminologia il compito di studiare il comportamento delle istanze cui è affidato il controllo del crimine. Si parla non a caso di “agenzie” del controllo sociale formale per intendere magistratura e polizia.

Lo studio del controllo porta quindi con sé necessariamente lo studio delle norme che tale controllo regolano e formalizzano. Quand’anche si accolga l’indicazione della criminologia tradizionale secondo la quale il criminologo si qualifica come tale in quanto applica modelli e teorie di altri campi del sapere alla realtà criminosa, non si può considerare la criminalità come fenomeno naturale che ha valore in sé.

Per rendere l’atteggiamento del criminologo nei confronti del giurista si potrebbe forse richiamare quanto uno scrittore austriaco diceva dei filosofi, che sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo richiudendolo in un sistema.

L’ambivalenza di questi rapporti tra norma ed empiria emerge nel modo più illuminante dalle parole di Hans Heinrich Jescheck, giurista contemporaneo, che ha scritto che il diritto penale senza criminologia è cieco, la criminologia senza il diritto penale è sconfinata. La constatazione dell’illimitatezza della criminologia non è necessariamente un dato oggettivo di questa disciplina ma l’immagine, la percezione che di essa ha il giurista.

Il giurista si assegna l’immagine di un avventuroso colonizzatore che amplia i propri orizzonti ma è ben consapevole della sua salda identità. Al contrario il selvaggio criminologo riceverà dallo scopritore una identità prima inesistente, visto che non può darsi identità senza limite e quel limite verrà da una civiltà del diritto la cui vocazione è tracciare confini, costruire fitte reti di sistemi.

 

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