La liberta degli Stati di disporre di diritti sovrani sul territorio: la concessione di basi militari

In virtù della sua sovranità lo Stato può autorizzare (e, in caso contrario, è illegittima) qualsiasi attività posta in essere da autorità di uno Stato estero. Lo Stato può inoltre autorizzare l’uso militare del proprio territorio anche per l’installazione di una stabile base militare da parte di un paese straniero o di una organizzazione internazionale (come accade in Italia per le basi Nato). Lo Stato territoriale può cedere completamente l’utilizzo della base allo Stato straniero trasferendo gli in pieno ed esclusivo esercizio delle connesse funzioni di governo, così come è accaduto nella base statunitense di quanta n’andò nell’isola di Cuba che presentava piena giurisdizione statunitense su tutte le persone che a qualunque titolo risiedessero nel territorio della base (compresi i detenuti).

Sovranità territoriale e immunità dalla giurisdizione civile dello Stato estero e di organizzazioni internazionali

Un principio di cui si parla spesso nel linguaggio diplomatico ed anche in quello comune è il principio del non intervento negli affari interni ed internazionali di un altro Stato: è difficile precisarne l’esatto contenuto in quanto principio giuridico.

Il principio della non ingerenza negli affari altrui è venuto via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione con l’affermarsi di altre e più pregnanti regole generali.

La più importante di queste regole – che però non interessa in questa sede in quanto riguarda i limiti della forza internazionale degli Stati – è costituito dal divieto della minaccia o dell’uso della forza.

Il problema più interessante in tema di trattamento degli Stati stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale.

La giurisprudenza italiana e quella belga, nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, hanno portato alla revisione della regola tradizionalmente sostenuta dell’immunità assoluta, con l’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta o relativa, oggi comunemente ammessa, tanto da corrispondere allo stato del diritto internazionale consuetudinario.

Secondo la teoria dell’immunità ristretta, l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti iure imperii (a quegli atti cioè attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure gestionis o iure privatorum, ossia agli atti aventi carattere privatistico.

La distinzione tra atti iure imperii ed atti iure gestionis non è sempre facile da applicare ai singoli casi concreti: può forse sostenersi che, in caso di dubbio, debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione, la seconda costituendo una sorta di eccezione alla prima.

La tendenza a considerare che l’immunità sia la regola e l’esercizio della giurisdizione l’eccezione è anche alla base del Progetto di articoli su “Le immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni”, adottato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite.

Uno dei campi in cui oggi frequentemente viene in rilievo il problema dell’immunità, ed in cui la distinzione tra atti iure imperii e iure gestionis si rivela di difficile applicazione, è quello relativo alle controversie di lavoro.

Fino ad epoca recente la nostra giurisprudenza aveva riguardo alle mansioni esplicate e riconosceva l’immunità quando esse implicavano una partecipazione del lavoratore all’esercizio di “funzioni sovrane”, o comunque ad “attività pubblicistiche” dello Stato estero; seguendo questa strada, si finiva però per assegnare una sfera pressoché illimitata all’immunità.

La “Convenzione europea sull’immunità degli Stati” adotta per i rapporti di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore cumulato con quello del luogo delle prestazioni: se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo cittadino di un terzo Stato, ed il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.

Il Progetto di convenzione predisposto dall’Organizzazione degli Stati Americani (vedi § 49) è ancor più favorevole agli interessi del lavoratore in quanto esclude comunque l’immunità quando il lavoro è prestato nel territorio dello Stato del foro.

La norma secondo cui lo Stato straniero non è immune se il lavoro è prestato nel territorio dello Stato del foro viene sempre più spesso considerata dalla giurisprudenza come corrispondente al diritto consuetudinario o quanto meno ad una consuetudine in formazione.

Ponendosi dal punto di vista dello sviluppo progressivo del diritto internazionale, appare criticabile un articolo del Progetto della Commissione di diritto internazionale, il quale da un lato prevede che l’immunità non sia invocabile se si tratti di lavoratori i quali abbiano la cittadinanza dello Stato locale o risiedano abitualmente nel suo territorio, ma dall’altro fa rivivere la distinzione tra rapporti iure imperii e rapporti iure gestionis, stabilendo che la giurisdizione non possa comunque esercitarsi quando il lavoratore sia stato assunto per mansioni strettamente legate all’esercizio del potere di governo (puissance publique).

In linea di principio non sussiste l’immunità quando uno Stato è citato in giudizio per le conseguenze civilistiche della violazione di norme di ius cogens ed in particolare di violazioni gravi dei diritti umani, le norme di ius cogens non potendo non prevalere non solo sulle convenzioni internazionali ma anche sulle altre norme consuetudinarie.

L’immunità può sempre essere oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero; né essa può essere eccepita, qualora lo Stato straniero si faccia attore in giudizio, in ordine alle domande riconvenzionali.

La rinuncia può essere espressa od implicita, ma in questo secondo caso occorre comunque che sussista l’elemento della intenzionalità: per la mancanza dell’elemento dell’intenzionalità si è negato, ad es., negli Stati Uniti, che una rinuncia potesse considerarsi come implicita nella violazione di norme di ius cogens internazionale: si trattava nella specie di un’azione per il risarcimento dei danni derivanti dai crimini contro l’umanità commessi dalla Germania nazista.

L’immunità dalla giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati, viene anche riconosciuta agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche.

La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione sia all’esecuzione forzata su beni (a qualsiasi titolo) detenuti da uno Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile solo se essa è esperita su beni, o nell’ambito di beni, non destinati ad una pubblica funzione.

Una questione che si è posta più volte innanzi alle Corti interne è se possano esser chieste misure di esecuzione sul danaro depositato in conti correnti bancari: in mancanza di una destinazione specifica del conto, la giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere che esso sia inattaccabile in quanto in principio destinato a finanziare i fini istituzionali.

Per quanto riguarda l’Italia, una disposizione legislativa subordinava il pignoramento ed in genere gli atti esecutivi su beni mobili od immobili, navi, crediti, valori ed ogni altra cosa spettante ad uno Stato estero all’autorizzazione del Ministro per la Giustizia: la legge attuava così una (oggi) inammissibile dipendenza del Potere giudiziario dal Potere esecutivo.

Senza fondamento nel diritto internazionale è la dottrina dell’Act of State, dottrina secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, in quanto contraria al diritto internazionale e neppure in quanto illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di origine: in altre parole, le corti di uno Stato, anche nei giudizi tra parti private, non potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano in rilievo nei giudizi medesimi.

Un altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle organizzazioni internazionali.

Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità, comunque disposizioni convenzionali in tema di immunità dei funzionari non mancano per nessuna organizzazione.

Egualmente dal diritto convenzionale sono regolate le immunità dei rappresentanti degli Stati in seno agli organi delle organizzazioni internazionali.

Per i funzionari delle Nazioni Unite la Carta si limita a sancire un principio generale in tema di immunità (“i funzionari dell’Organizzazione godranno […] dei privilegi e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni”), demandando all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati membri la conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della materia.

Per quanto riguarda i funzionari delle Comunità europee, norme sulle immunità, più o meno simili a quelle previste per i funzionari dell’ONU, sono contenute nel Protocollo sulle immunità e i privilegi delle Comunità annesso al Trattato sulla fusione degli esecutivi comunitari.

Circa le immunità dei rappresentanti degli Stati, la materia, oltre che essere regolata negli accordi relativi a ciascuna organizzazione, ha anche formato oggetto di una Convenzione di codificazione, la Convenzione del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro relazioni con le organizzazioni internazionali di carattere universale, che riconosce tra l’altro le immunità diplomatiche ai membri delle missioni permanenti presso le organizzazioni.

Le immunità ed i privilegi dei funzionari sono accordati nell’interesse dell’organizzazione cui questi appartengono: l’organizzazione può sempre rinunciarvi (ad es. nel caso dell’ONU è al Segretario generale che compete la rinuncia in ordine a singoli casi concreti).

Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri: tale obbligo sussiste nei confronti dello Stato nazionale e la sua violazione dà luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte dello Stato nazionale medesimo.

Allo stato attuale può forse ritenersi che un obbligo di protezione del funzionario sussista anche nei confronti dell’organizzazione ma che questa possa agire sul piano internazionale nei confronti dello Stato territoriale solo per il risarcimento dei danni ad essa arrecati (c.d. protezione funzionale) e non di quelli arrecati all’individuo in quanto tale.

È possibile estendere alle organizzazioni internazionali per analogia la norma sul rispetto dei cittadini stranieri, ma limitatamente agli eventuali danni arrecati alla funzione che gli individui svolgano (l’analogia è possibile in quanto il fatto che l’individuo svolga una funzione per conto del proprio Stato è equivalente al fatto che esso la svolga per conto della propria organizzazione internazionale); non è possibile estendere analogicamente tale norma anche nel senso che lo Stato sia tenuto verso l’organizzazione a risarcire i danni arrecati all’individuo come tale.

La Corte Internazionale di Giustizia si occupò del problema in esame su richiesta dell’Assemblea generale dell’ONU in un famosissimo parere a proposito del caso Bernadotte: il conte Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un suo collaboratore, da estremisti ebraici, ed il Segretario generale aveva accusato apertamente il Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due attentati.

L’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il risarcimento dei danni in caso di mancata protezione dei suoi funzionari, e la Corte risposte affermativamente sostenendo addirittura che l’organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre al risarcimento dei danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale.

Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali.

L’immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione può oggi considerarsi come prevista da una norma consuetudinaria.

Essa trovasi espressa (con valore quindi meramente dichiarativo del diritto consuetudinario) anche in numerose norme convenzionali.

Le organizzazioni internazionali più importanti provvedono all’emanazione di corpi organici di norme sul rapporto di lavoro e all’istituzione di appositi loro tribunali destinati a dirimere le controversie nascenti da tali rapporti: nelle Nazioni Unite funziona ad es. un Tribunale Amministrativo; nelle Comunità europee le controversie di lavoro sono di competenza dei normali organi giudiziari delle Comunità (Tribunale di primo grado, Corte di Giustizia).

 

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