I titoli di sovranità territoriale

La sovranità territoriale deve esprimersi in forma aperta e pubblica. Essa è inoltre esclusiva (il che impedisce che sullo stesso territorio insista un’altra sovranità di pari natura) ed originaria (se la sovranità deriva dalla sola infettività del potere di governo). Contrariamente a quanto accadeva in passato, nel diritto internazionale contemporaneo è precluso l’acquisto della sovranità territoriale su un territorio nullius a seguito della sua occupazione, in virtù del diritto di autodeterminazione dei popoli sottoposti al dominio coloniale.

Il titolo di sovranità può anche essere derivato da un trattato se da esso dipende la ricognizione di una data delimitazione territoriale oppure la cessione del territorio da parte di un altro Stato: un titolo idoneo è ad esempio il trattato di pace, ma non un accordo di armistizio poiché questo pone fine alle ostilità ma non allo stato di guerra. Il titolo di sovranità può anche dipendere da un atto specifico di un’organizzazione internazionale, o da criteri giuridici sulla determinazione dei confini: ad esempio il criterio dello spartiacque stabilisce che uno stesso fiume navigabile che scorre tra due Stati appartenga ciascuno di essi fino a metà del suo corso. Il modo migliore per definire le frontiere territoriali controversie è comunque l’accordo fra Stati, come accaduto tra Libia e Ciad nel 1994.

La sovranità dello Stato costiero sugli spazi marittimi circostanti

Salve alcune limitazioni, il mare territoriale è, secondo il diritto internazionale consuetudinario, sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di terraferma.

L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la sovranità sul mare territoriale.

Il mare territoriale, in base ad un principio ormai consolidato e contenuto anche nella Convenzione di Montego Bay, può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia marine dalla costa.

Secondo la Convenzione di Montego Bay, “in una zona d’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario in vista a) di prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione […]; b) di reprimere le violazioni alle medesime leggi, qualora siano state commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale […]”.

Essa inoltre fissa a 24 miglia marine la larghezza massima della zona contigua, ma c’è da chiedersi se tale disposizione corrisponda al diritto internazionale generale.

Per quanto riguarda la vigilanza doganale, il potere dello Stato costiero incontra per il diritto internazionale consuetudinario un limite funzionale e non spaziale: lo Stato può fare tutto ciò che è necessario (e solo ciò che è necessario) per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti alle sue coste.

La distanza dalla costa del luogo in cui la repressione avviene ha scarso significato: essa può essere anche superiore alle 12 o 24 miglia, purché non si tratti di una distanza tale da far perdere ogni idea di adiacenza.

Quando si vuole sostenere a tutti i costi che la vigilanza doganale possa essere esercitata soltanto entro spazi determinati (mare territoriale, zona contigua), si è soliti ricorrere alla teoria della presenza costruttiva, ossia alla tesi secondo cui la nave che abbia contatti con la costa è come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato costiero.

Per quanto riguarda la repressione del traffico di droga, la Convenzione di Vienna del 1988 sulla repressione del traffico illecito di droghe e di sostanze psicotrope subordina al previo consenso dello Stato della bandiera la visita e la cattura di navi che esercitano siffatto traffico, ma essa in quanto espressamente fa salvi i diritti e gli obblighi degli Stati costieri deve ritenersi applicabile solo ai mari non adiacenti.

Sebbene si parli comunemente di vigilanza doganale e sebbene la Convenzione di Montego Bay attribuisca allo Stato costiero il controllo necessario in vista di prevenire la violazione delle proprie leggi e regolamenti doganali, deve ritenersi che le misure consentite dal diritto internazionale consuetudinario siano sia le misure preventive (visita e perquisizione) sia quelle repressive (cattura della nave, punizione dei membri dell’equipaggio).

In base a quanto finora detto deve ritenersi conforme al diritto consuetudinario la legge italiana che estende il nostro mare territoriale a 12 miglia.

Da quali punti della costa si misura la distanza delle 12 miglia? È questo il problema del limite interno o linea di base del mare territoriale.

La Convenzione di Montego Bay fissa il principio generale secondo cui la linea di base per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea.

Essa poi riconosce la possibilità di derogare a siffatto principio ricorrendosi al sistema delle linee rette, in base al quale la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo, come nel caso della linea della bassa marea, le sinuosità della costa, ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, nel caso vi siano corone di isole e scogli in prossimità della costa, congiungendo le estremità delle isole e degli scogli medesimi, o ancora, in presenza di un delta o di altra caratteristica naturale che renda la costa estremamente instabile, unendo comunque i punti più avanzati.

La linea di base non deve discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della costa, le acque situate all’interno della linea devono essere sufficientemente legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne, e si può tener conto, per la determinazione di certe linee di base, degli interessi economici attestati da un lungo uso delle regioni costiere.

Altra norma importante in tema di limite interno del mare territoriale è quella riguardante le baie.

Se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia sono considerate come acque interne; se la distanza eccede invece le 24 miglia, può tracciarsi all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile.

La norma considera però come baie solo le insenature che penetrino in profondità nella costa e precisamente le insenature la cui superficie sia almeno eguale o superiore a quella di un semicerchio avente per diametro la linea di entrata: solo a questo tipo di baie si applica la regola delle 24 miglia.

La norma fa poi salvo anche il regime delle baie storiche, cioè delle baie sulle quali lo Stato costiero possa vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri Stati.

Spostandosi verso il largo la linea di base aumenta la possibilità di accaparramento delle risorse: ciò spiega perché molti Stati sono andati procedendo da vari anni alla chiusura di baie e golfi di vaste proporzioni.

Tra le chiusure di baie ricordiamo quella della Baia di Pietro il Grande da parte dell’Unione Sovietica, e del Golfo di Taranto da parte dell’Italia.

Sempre più spesso si parla nella prassi, per giustificare la chiusura, di baie vitali, intendendosi sottolineare con ciò le esigenze economiche e di difesa che sono alla base della chiusura medesima; sennonché non sembra che la nozione di baia vitale sia una nozione riconosciuta dal diritto internazionale positivo.

L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e delle isole maggiori.

È molto dubbia la legittimità internazionale della chiusura dell’intero Golfo di Taranto (il Golfo ha un’apertura di circa 60 miglia ed è una vera e propria baia ai sensi della Convenzione di Montego Bay).

Passando ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale, questi sono in linea di principio gli stessi poteri esercitati nell’ambito del territorio, con le limitazioni che si accompagnano alla sovranità territoriale e che a suo tempo abbiamo viste.

Esistono due limiti alla potestà di governo dello Stato costiero, i quali sono caratteristici del mare territoriale e servono a distinguere quest’ultimo dalle acque interne.

Il primo limite è costituito dal c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere, limite di cui si occupa la Convenzione di Montego Bay.

Ogni nave straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste, e purché il passaggio sia continuo e rapido.

Il passaggio è inoffensivo, dice la Convenzione, finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello Stato costiero; e la stessa Convenzione indica una serie di casi (uso della forza, esercizi o manovre con armi, propaganda ostile, inquinamento, pesca, etc.) in cui il passaggio non può considerarsi inoffensivo.

Se il passaggio non è inoffensivo, lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo.

Eccezionalmente lo Stato costiero può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza, ad es. per procedere a manovre militari, determinate zone del mare territoriale, purché pubblicizzi adeguatamente la chiusura e non effettui discriminazioni tra le navi di diversa nazionalità.

Le norme sul passaggio inoffensivo si riferiscono a tutti i tipi di navi, e quindi vanno applicate anche alle navi da guerra, salvo l’obbligo per i sottomarini di navigare in superficie.

La Convenzione di Montego Bay prevede che quando gli stretti uniscono zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata, le navi hanno un diritto di passaggio in transito, ossia un passaggio che non può essere intralciato o sospeso; inoltre gli stretti medesimi possono essere sorvolati, a differenza di quanto avviene per il mare territoriale, ed attraversati da sottomarini anche senza l’obbligo di navigare in superficie.

Un semplice diritto di passaggio inoffensivo caratterizza invece gli stretti che, pur servendo alla navigazione internazionale, uniscono il mare territoriale di uno Stato ad una parte di mare internazionale od alla zona economica esclusiva di un altro Stato; e lo stesso vale nel caso di stretti situati tra le coste continentali ed un’isola di un solo Stato (si pensi allo stretto di Messina), sempre che esista una comoda rotta di mare non territoriale percorribile al largo dell’isola.

In questi casi il passaggio inoffensivo non può essere sospeso.

Un altro limite tuttora osservato nella prassi riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere.

La giurisdizione penale non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che non abbiano alcuna ripercussione nell’ambiente esterno.

Sul punto la Convenzione di Montego Bay si discosta dal diritto consuetudinario: la Convenzione infatti si limita a prescrivere che lo Stato costiero non dovrebbe esercitare la giurisdizione sui fatti interni, e sembra quindi lasciare arbitro lo Stato di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva.

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale la corsa all’accaparramento delle risorse ha determinato la tendenza degli Stati costieri ad estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale: tale tendenza si è risolta nella generale accettazione della dottrina della piattaforma continentale e nella istituzione della c.d. zona economica esclusiva.

Sia la prima che la seconda possono ormai ritenersi avallate dalla consuetudine.

Le regole in tema di piattaforma continentale contenute nella Convenzione di Montego Bay possono così sintetizzarsi.

Ferma restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti, lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma, intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle coste che costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una profondità costante (circa 200 metri) per poi precipitare negli abissi.

Il diritto esclusivo di sfruttamento viene acquistato dallo Stato costiero in modo automatico, cioè a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma.

Il diritto sulla piattaforma continentale ha natura funzionale: lo Stato costiero può esercitare il proprio potere di governo solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma.

La dottrina della piattaforma continentale, facendo leva sulla conformazione geografica delle coste, risulta abbastanza iniqua.

L’iniquità è stata in larga misura superata dall’istituzione della zona economica esclusiva, che comporta comunque l’assegnazione allo Stato, a prescindere dalla conformazione geografica, delle risorse del fondo marino fino a 200 miglia dalla costa.

Un problema molto importante è quello della delimitazione della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o tra Stati contigui.

La Convenzione di Ginevra stabiliva che, sia nel caso di delimitazione frontale che nel caso di delimitazione laterale, e salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio dell’equidistanza: tale criterio consiste nel tracciare una linea i cui punti siano equidistanti dai punti delle rispettive linee di base del mare territoriale.

Secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord, il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto internazionale consuetudinario: con la conseguenza che la delimitazione può essere effettuata soltanto mediante un accordo tra gli Stati interessati; l’accordo però deve ispirarsi a principi di equità.

L’opinione della Corte è stata recepita dalla Convenzione di Montego Bay.

Fino alla conclusione dell’accordo di delimitazione, nessuno Stato può pretendere, nei confronti dei vicini, l’uso esclusivo delle zone di piattaforma controverse.

Nel caso di Stati contigui la linea di equidistanza può dare luogo ai risultati più paradossali: uno Stato le cui coste siano disposte secondo una forma convessa può vedere accresciuta la sua porzione di piattaforma continentale in quanto la linea di confine tende ad aprirsi verso il largo; viceversa se lo Stato ha coste a forma concava, la linea di equidistanza tenderà a ripiegare verso l’interno, riducendo la porzione di piattaforma.

Anche nell’ipotesi di delimitazione frontale l’equidistanza può dar luogo ad effetti distorti, ad es. se uno degli Stati frontisti ha altresì la sovranità su un’isola o un piccolo gruppo di isole situate in prossimità delle coste dell’altro.

Sia la Corte Internazionale di Giustizia in successive decisioni sia altri Tribunali internazionali hanno confermato la tesi che la delimitazione debba avvenire mediante accordo e che l’accordo debba ispirarsi a principi di equità.

Ma che senso ha subordinare l’accordo all’equità?

Se e quando un accordo di delimitazione è concluso, esso resta valido, equi od iniqui che siano i criteri applicati; a meno di non ritenere che l’equità assurga nella specie a regola di ius cogens , il che sembra da escludere.

La giurisprudenza internazionale ha finito con l’indicare una serie di criteri pratici che possono esser tenuti utilmente da chi, arbitro o negoziatore, debba procedere alla delimitazione.

Ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale si sono venuti sovrapponendo quelli esercitabili nell’ambito della zona economica esclusiva, istituto di diritto consuetudinario.

La zona economica può estendersi fino a 200 miglia marine, limite calcolato a partire dalla linea di base del mare territoriale.

Anche per la zona economica assume grande importanza la delimitazione tra Stati frontisti o contigui, delimitazione che, come nel caso della piattaforma continentale, è rimessa all’accordo tra detti Stati.

Per quanto riguarda i poteri dello Stato costiero nella zona economica esclusiva, l’orientamento che ha prevalso in seno alla Terza Conferenza e che informa la legislazione interna è nel senso dell’attribuzione allo Stato costiero del controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo che delle acque sovrastanti.

Che cosa resta, nell’ambito della zona economica esclusiva, agli Stati diversi da quello costiero?

L’opinione difesa dalle Potenze di tradizione marittima, e non respinta dalla generalità degli Stati, è che l’attribuzione delle risorse allo Stato costiero non debba pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle altre possibili utilizzazioni della zona; tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini.

C’è però contrasto in ordine alla gerarchia delle regole applicabili nella zona economica: c’è da un lato chi sostiene che il vecchio principio della libertà dei mari debba continuare ad essere la regola prima e fondamentale, e chi invece ritiene che i poteri dello Stato costiero siano la regola e le libertà degli altri Stati l’eccezione.

È difficile inquadrare la situazione degli altri Stati nella zona economica in termini di libertà dei mari: l’istituzione della zona rompe una volta per tutte con la disciplina tradizionale dei rapporti fra lo Stato costiero e gli altri utenti del mare.

Nella zona economica non vi è prevalenza di una regola sulle altre.

I diritti, sia dello Stato costiero che degli altri Stati, hanno carattere funzionale, nel senso che all’uno e agli altri sono consentite solo quelle attività indispensabili rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle comunicazioni e ai traffici marittimi ed aerei.

Anche la Convenzione di Montego Bay non adotta come regola prima applicabile ai casi dubbi né il principio della libertà dei mari né il principio della sovranità dello Stato.

Essa si limita a stabilire, con riguardo soltanto alle lacune della Convenzione, che “Nel caso in cui la Convenzione non attribuisca dei diritti o delle competenze allo Stato costiero o agli altri Stati all’interno della zona economica esclusiva, e un conflitto sorga tra l’interesse dello Stato costiero e quelli di uno o più Stati, tale conflitto deve essere risolto sulla base dell’equità e tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti nonché dell’importanza che gli interessi in gioco rivestono sia per le parti sia per la comunità internazionale nel suo complesso”.

Secondo la Corte di Giustizia delle Comunità europee non può applicarsi alle navi extracomunitarie un regolamento della CE che imponga di non trasportare a bordo di navi nella zona economica esclusiva degli Stati membri dell’Unione europea determinate specie di pesci pescati oltre la zona economica medesima.

Egualmente, il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare ha ritenuto che lo Stato costiero non possa sanzionare, in applicazione delle sue leggi doganali, il rifornimento e la vendita di carburante da parte di una nave straniera ad altre navi nella zona economica esclusiva.

Oltre le 200 miglia si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la propria giurisdizione: la Convenzione di Montego Bay, che sotto questo aspetto corrisponde alla communis opinio, stabilisce di sì, aggiungendo peraltro che una parte di quanto lo Stato costiero ricavi dallo sfruttamento delle zone situate tra le 200 miglia e il limite estremo della piattaforma (c.d. margine continentale) debba esser versata all’Autorità internazionale dei fondi marini.

Con riguardo ai Paesi che non hanno accesso al mare (c.d. land-locked States) o che sono geograficamente svantaggiati la Convenzione di Montego Bay prevede che essi “hanno il diritto di partecipare, su basi equitative, allo sfruttamento di una parte appropriata delle risorse biologiche eccedentarie [non si parla di risorse minerarie!] delle zone economiche esclusive degli Stati costieri della stessa regione o sotto-regione”, ma demandano la determinazione delle condizioni e modalità di siffatta partecipazione ad accordi tra gli Stati interessati.

 

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