Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli Stati costieri. La Convenzione di Montego Bay definisce tali spazi come alto mare (art. 86), ma ciò sembra assurdo ove si consideri che di alto mare si parlava quando era impensabile che il controllo dello Stato costiero potesse estendersi a 200 miglia. Sembra quindi maggiormente opportuno parlare di mare internazionale, termine che più di ogni altro corrisponde alla situazione reale, trattandosi per l’appunto degli spazi marini sottratti al controllo di un singolo Stato.

Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della libertà dei mari. Tutti gli Stati hanno quindi eguale diritto a trarre dal mare internazionale tutte le utilità che questo può offrire. Il principio di libertà, tuttavia, ha anche il suo risvolto negativo, comportando che uno Stato non possa utilizzare gli spazi marini fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi.

Per quanto riguarda le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo del mare internazionale (es. croste di ferro, noduli polimetallici), una famosa risoluzione dell’Assemblea delle NU (ris. n. 2749 del 1970) le ha dichiarate patrimonio comune dell’umanità , segnando un’evoluzione nella disciplina dello sfruttamento: è stata infatti costituita l’Autorità internazionale dei fondi marini, un’organizzazione internazionale capace di assicurare lo sfruttamento di tali risorse nell’interesse dell’intera umanità. Attualmente tutte le attività di sfruttamento devono avvenire secondo un sistema parallelo previsto nelle linee generali dalla parte XI della Convenzione di Montego Bay e secondo il quale ogni sito da sfruttare è diviso in due parti, l’una attribuita allo Stato che abbia individuato l’area e l’altra attribuita ad uno degli organi dell’Autorità (c.d. Impresa) la quale provvederà allo sfruttamento.

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