In un primo momento si impose l’idea che dal richiamo costituzionale ai Patti lateranensi dovesse derivare la costituzionalizzazione di tutte le disposizioni pattizie: utilizzando un argomento a contrario, infatti, si sostenne che dalla parte conclusiva dell’art. 7 co. 2 fosse possibile dedurre che il procedimento di revisione costituzionale, non necessario per le modifiche bilateralmente concordate, fosse necessario per le modifiche unilateralmente disposte dallo Stato. Tale teoria, tuttavia, risultò immediatamente insostenibile sia perché non tutte le materie trattate nella Costituzione trapassano nel campo costituzionale sia perché nelle ipotesi di rinvio la fonte richiamata (norma pattizia) non assume necessariamente lo stesso rango della richiamante (norma costituzionale). Era peraltro agevole ribaltare l’argomento a contrario, dal momento che i Patti lateranensi, assunti come norme costituzionali, avrebbero potuto essere modificati con legge ordinaria nell’ipotesi in cui vi fosse stato accordo con la Chiesa (contrasto con art. 138). Contro la teoria della costituzionalizzazione dei Patti lateranensi milita anche la circostanza che, se si ammettesse la costituzionalizzazione delle norme concordatarie, queste ultime costituirebbero un corpo di norme costituzionali speciali destinate a prevalere anche nei confronti delle stesse norme generali della Carta costituzionale.

Una parte della dottrina si chiese allora se fosse possibile parlare non di costituzionalizzazione delle singole norme pattizie, ma di costituzionalizzazione del principio concordatario, ossia del principio secondo cui i rapporti tra Stato e Chiesa devono essere necessariamente disciplinati mediante concordati o altri accordi bilaterali. Sarebbe quindi costituzionale (riformabile unicamente ex art. 138) il principio della necessaria regolamentazione concordataria dei rapporti tra Stato e Chiesa, in concreto rappresentata dai Patti lateranensi. Questa teoria, tuttavia, risulta allo stesso modo insostenibile perché si concreterebbe in un ordine di esecuzione dei Patti lateranensi, producendo l’adattamento automatico delle norme del Trattato e del Concordato nell’ambito dell’ordinamento costituzionale :

  • l’art. 7, limitandosi ad escludere che la forma dell’esecuzione degli accordi tra Stato e Chiesa debba essere quella della legge costituzionale di revisione, dichiara implicitamente necessario un ordine di esecuzione;
  • qualora l’art. 7 co. 2 fosse concepito quale ordine di esecuzione nell’ordinamento interno tanto dei Patti lateranensi quanto degli accordi di quest’ultimi modificativi, la norma si trasmuterebbe in un inammissibile mandato in bianco al Governo per derogare, in accordo con la Chiesa, ai principi costituzionali senza il controllo del Parlamento.

Catalano ritiene più coerentemente che l’art. 7 si limiti a ribadire il principio di stare pactis per quanto riguarda le convenzioni esistenti con la Santa Sede , imponendo agli organi del potere legislativo l’obbligo negativo di non legiferare in modo contraddittorio agli impegni pattizi e a quelli del potere esecutivo l’obbligo positivo di agire in modo conforme ai patti. La ratio legis di questa disposizione, in sintesi, è soltanto quella di stabilire l’impegno dello Stato, garantito costituzionalmente, alla conservazione dei Patti lateranensi (costituzionalizzazione del principio pattizio). La Corte costituzionale di conseguenza ritiene che l’art. 7 non preclude in alcun modo il controllo di costituzionalità delle leggi che immisero nell’ordinamento interno le clausole dei Patti lateranensi, potendosene valutare la conformità ai principi supremi dell’ordinamento .

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