La dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici distingue tra ordinamenti derivati e ordinamenti originari: l’ordinamento è derivato quando è l’ordinamento statuale, dunque, che lo fa esistere, è l’ordinamento statuale che ne determina la sfera d’azione. L’ordinamento è invece originario quando la sua costituzione fonda la propria efficacia esclusivamente sulla forza dell’ordinamento stesso. Mentre in relazione alle confessioni diverse dalla cattolica appare più appropriata la loro configurazione come ordinamenti derivati, la Chiesa cattolica ha sempre tenuto ad autorappresentarsi come un ordinamento originario. Questo fatto ha conseguenze rilevanti in ordine alla natura degli strumenti prescelti per l’attuazione del principio di bilateralità. Infatti il più importante, anche se non l’unico, è il concordato, consistente in un accordo considerato analogo ai trattati di diritto internazionale.

Esso presuppone quindi due soggetti che si pongono su di un piano paritario ed esterno all’orizzonte normativo statualistico, e la sua importanza politica si mostra nel fatto che gli interlocutori sono da una parte il Governo al suo massimo livello dall’altra la S. Sede quale organo di governo della Chiesa universale.

Un secondo strumento, meno solenne, è costituito dalle intese paraconcordatarie, quelle intese che possono essere cioè stipulate “tra le competenti autorità dello Stato” e “la Conferenza Episcopale Italiana”, organismo permanente costituito da tutti i vescovi italiani ed il cui presidente, per statuto, è legittimato a intrattenere relazioni con le autorità politiche italiane.

Un terzo strumento, che si collega al dato per cui una dimensione ragionevole degli interessi religiosi collettivi è quella di livello locale ed il suo rilevamento è favorito dal riparto di poteri statali proprio con riferimento a questo livello, si rinviene in svariate leggi regionali, le quali prevedono la possibilità di intese fra gli organi della Regione e la Conferenza episcopale regionale.

Va ricordato infine che, in caso di materie oltremodo specifiche e di importanza limitata, i risultati sostanziali di un accordo possono essere raggiunti attraverso lo Scambio di note diplomatiche tra un organismo della Curia Romana, la Segreteria di Stato-Sezione dei rapporti con gli Stati, e l’Ambasciata Italiana presso la Santa Sede.

La logica in cui si inserisce oggi lo strumento concordatario è quella della interdipendenza delle energie vitali della società e della loro mutua cooperazione allo sviluppo della società nel suo complesso e nei suoi singoli soggetti.

Il problema allora non è quello di difendere, contro i rischi di degenerazione della negoziazione, le prerogative di un sovrano che non c’è più, bensì è di fare in modo che gli effetti di questa negoziazione, in termini di conferimento di poteri e di risorse, siano coerenti con il sistema di valori che la società civile ha enunciato nella Costituzione ed in cui ha voluto indicare le condizioni di possibilità della vita comune.

Sia la Santa Sede sia la Repubblica italiana agiscono di regola per mezzo di specifici organi di rappresentanza, abilitati a manifestare validamente la loro volontà nel campo delle relazioni diplomatico-internazionali”. Per quanto riguarda la Santa Sede, l’organo abilitato è la Segreteria di Stato.

L’organo statuale che forma la volontà negoziale, prendendo anche l’iniziativa al riguardo, è il Governo al suo massimo livello, che conduce le trattative attraverso una commissione cui se ne contrappone, di regola, un’altra di formazione confessionale. La legge 23 agosto 1988 n. 400 stabilisce all’art. 2 c. 3°che la formazione della volontà dello Stato in ordine agli “atti concernenti i rapporti con la Chiesa cattolica di cui all’art. 7 della Costituzione” ed agli “atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione” si concretizza in una “deliberazione” del Consiglio dei Ministri.

La Costituzione, dopo aver richiamato i Patti Lateranensi, stabilisce che una loro modifica o abrogazione può aversi solo con una previa contrattazione fra lo Stato e la S. Sede, organo centrale della Chiesa cattolica. Ed è quello che è accaduto nel 1984, allorché si è avuto un nuovo concordato, articolato in un testo principale e due protocolli.

L’art. 13 n. 1 dell’Accordo 1984 dichiara che “le disposizioni del concordato (del 1929) non riprodotte nel presente testo sono abrogate”. Abbiamo la integrale sostituzione del Concordato 1929 con l’Accordo 1984, ossia “l’abrogazione di un testo di legge accompagnata dalla contestuale promulgazione di un nuovo testo di legge che sostituisce in toto quello abrogato”. Ricorrono cioè le condizioni che l’art. 59 par. 1° della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati indica come causa di cessazione degli effetti giuridici di un trattato allorché stabilisce: “Un trattato è considerato aver preso fine quando tutte le parti di questo trattato concludono ulteriormente un trattato che regola la stessa materia e: a) risulta dal trattato posteriore o è altrimenti stabilito che secondo le intenzioni delle parti la materia dev’essere regolata da questo trattato; o b) le disposizioni del trattato posteriore sono a tal punto incompatibili con quelle del trattato anteriore che è impossibile applicare i due trattati allo stesso tempo”.

La Corte Costituzionale invece ritiene che l’art. 13 colloca “la nuova disciplina in raccordo alla precedente e nel contesto dei Patti richiamati dall’art. 7 c. 2° Cost.”, sul consequenziale argomento logico secondo cui le parti non hanno voluto abrogare il Concordato lateranense se non in qualche parte, e sul definitivo argomento sistematico secondo cui se l’Accordo del 1984 avesse abrogato il Concordato del 1929, avrebbe sostanzialmente travolto lo stesso art. 7 della Costituzione, e questo non sarebbe consentito.

Le intese tra “competenti autorità dello Stato” e la C.E.I. costituiscono uno strumento che potrà essere utilizzato ogni qual volta se ne ravvisi l’opportunità; ma costituiscono pure uno strumento già prefigurato nell’Accordo 1984 per dare attuazione alla disciplina di situazioni ed istituti che l’Accordo stesso si è limitato a delineare in termini generalissimi.

Anche a livello regionale possono aversi intese. In effetti, interessi religiosi possono profilarsi anche all’interno di materie riservate alla potestà di normazione regionale, ed allora le regioni possono valutare l’opportunità di addivenire, per la disciplina di tali interessi religiosi, ad intese con la corrispondente autorità ecclesiastica, atteggiandosi quindi a interlocutori di tale autorità, “quando l’oggetto risulti connesso alle loro competenze”.

Anzi, c’è da rilevare che proprio per avere una rappresentanza adeguata a queste articolazioni territoriali dello Stato, stanno ricevendo impulso dalla Chiesa italiana le conferenze episcopali regionali.

Il problema di accordi si pone quindi anche al livello del potere amministrativo. Più precisamente, bisogna distinguere i casi in cui la funzione amministrativa si esplica in modo autoritario da quelli in cui essa si esplica attraverso prestazione di servizi.

Quando siano in gioco valenze pubblicistiche della materia circa la quale si provvede, il gruppo confessionale si pone nella sua veste di ordinamento.

In questo caso, il coordinamento avviene attraverso atti.

L’estensione del principio di bilateralità a livello di azione amministrativa è dunque pienamente accettabile, come espressione del principio di buona fede nei comportamenti e di leale collaborazione fra ordinamenti egualmente legittimati ad esercitare i loro poteri ordinamentali in una determinata materia.

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