Uno Stato democratico è necessariamente pluralista. Questo pluralismo ideologico, che trova fondamentale riscontro nella proclamazione della libertà di manifestazione del pensiero e di alcune delle sue principali specificazioni, comporta ovviamente il pluralismo delle aggregazioni cui spesso gli invidi affidano l’espressione di tale pluralità di convincimenti.

Il concetto di pluralismo implica logicamente l’eguaglianza nel trattamento da parte dei poteri pubblici. Ecco perché l’art. 8 c. 1 ° Cost. stabilisce che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”.

I Costituenti non hanno pensato ad un autentico pluralismo confessionale: dietro le loro reticenze ed ambiguità c’è la pesantezza del dato per cui ciò che vale per le confessioni religiose in genere non vale per la Chiesa cattolica, la quale costituisce uno di quegli ordinamenti che mette in discussione la sovranità dello Stato-persona e dalla sua posizione di forza rivendica spazi particolari di esplicazione dei suoi poteri ordinamentali.

Rispetto alle confessioni religiose non varrebbe l’eguaglianza come ambito generalissimo, bensì l’eguaglianza si riferirebbe solo al limitato settore della libertà. La Corte Costituzionale che l’art. 8 c. 1° Cost. garantisce “eguale libertà di culto ma non identità di regolamento dei rapporti delle varie confessioni religiose con lo Stato”. Libertà sia un concetto polivalente: c’è innanzitutto una accezione negativa, come assenza di restrizioni.

Ma poi ci sono gli aspetti positivi della libertà, costituiti dal conferimento di risorse non solo materiali, ma anche giuridiche. Si capisce perciò che, in relazione a questi sviluppi della realizzazione di libertà per i gruppi confessionali, non possa applicarsi il principio dell’eguaglianza in senso tradizionale, bensì debba applicarsi il più elastico principio della ragionevolezza delle differenziazioni.

La condizione in cui si trovano le confessioni religiose per effetto degli interventi del diritto, sembra portare in evidenza tre situazioni:

  • differenze di trattamento tra la Chiesa cattolica da una parte e le confessioni diverse dalla cattolica dall’altra;
  • differenze di trattamento fra le diverse confessioni in conseguenza della disciplina speciale derivante dalle intese;
  • differenze di trattamento tra le confessioni provviste di intesa e le confessioni prive di intesa.

La Chiesa cattolica non è una pura e semplice confessione come tutte le altre, non è un mero segmento del variegato mondo religioso, in quanto i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, ed allora quanto si fa per la loro conservazione ed il loro sviluppo travalica gli stretti confini del fenomeno religioso in senso stretto.

L’effetto dell’attuazione di intese è la creazione di altrettanti diritti speciali quanti sono i gruppi i cui interessi vengono regolati attraverso l’intesa.

Ci possono essere confessioni prive di intesa. Questo fatto può provocare differenze di trattamento, rispetto alle confessioni provviste di intesa, sotto un duplice profilo:

a) in quanto l’intesa venga considerata come il presupposto per il conferimento di benefici finanziari;
b) in quanto per le sole confessioni con intesa viene esplicitamente abrogata la legislazione del 1929-1930, che continua ad essere vigente per altre e prevede pesanti forme di controllo a carico delle confessioni.

Per quanto riguarda il punto a) nella concessione di benefici finanziari le confessioni religiose vengono in rilievo come punti di riferimento soggettivo di interventi fondati sul valore sociale delle esigenze religiose, chiaramente incostituzionale.

Per quanto riguarda il punto b) le differenziazioni di trattamento risultanti dall’applicazione della legislazione 1929-1930 sono giustificate quando rispondono all’esigenza di una identificazione dei soggetti che richiedono di compiere uffici rilevanti anche per lo Stato, non lo sono quando si risolvono in compressioni di libertà.

Da questo punto di vista, s’impone una nuova legislazione che incida sulla precedente in questo senso:

  1. soppressione dei limiti del buon costume e dell’ordine pubblico riferiti ai principi professati, ed all’ordine pubblico riferito ai riti praticati;
  2. soppressione dell’autorizzazione per le alienazioni di beni dei corpi morali, nonché delle forme di vigilanza e di intervento nelle gestioni interne degli istituti riconosciuti come persone giuridiche.

L’art. 20 della Costituzione stabilisce: “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione e di culto d’una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Anche questa norma contiene entrambe le modalità di attuazione del principio di giustizia: da una parte essa può essere letta nel senso che deve ritenersi illegittima “la discriminazione di enti che abbiano fine di religione o di culto rispetto ad enti aventi finalità diverse”, dall’altra può essere letta nel senso che differenziazioni siano ragionevolmente ammissibili quando lo esiga particolare natura e funzione degli enti con finalità di religione.

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